Credi tu questo? – Documento 6° incontro

Credi tu questo? – 10 gennaio 2022 – Chiesa di Mirandola «Forte più della morte è l’amore»

(Trailer): La morte, l’enigma degli enigmi, in tutte le culture è ritenuta la più forte di tutte le potenze; ma gli ebrei, sperimentando un Dio misericordioso, avevano compreso che c’è un’altra potenza che può fronteggiarla: l’amore. Per questo il Cantico dei Cantici, uno dei testi ispirati più affascinanti della Bibbia, arriva ad esclamare: “forte come la morte è l’amore” (Cant 8,6). Ma il messaggio cristiano va ancora più avanti, la risurrezione di Gesù apre un mondo nuovo; così Paolo arriva a dire: “l’amore non avrà mai fine” (1 Cor 13,8). Se “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16), allora più forte della morte è l’amore; la morte non è l’ultima parola, ma la penultima. Dalla risurrezione di Gesù, e non da un ragionamento sull’anima, prende le mosse l’escatologia cristiana, che l’ultimo articolo del Credo professa come “risurrezione della carne” e “vita eterna”. L’amore di Dio vince su tutto, vuole salvare non solo una parte dell’essere umano – l’anima – ma l’intera persona, anima e corpo. Le verità ultime non sono appendici della fede, ma ne sono i pilastri: morte, giudizio, risurrezione. Parole che, nella pandemia, suonano particolarmente serie e decisive per gustare il senso della vita.

Grazie a tutti per questa nuova occasione di incontro e riflessione. A don Maurizio per il coordinamento e la sua prossima lezione; a don Claudio, don Raffaele, don Giacomo, don Guido e don Federico per le bellissime lezioni che ci hanno regalato; un grazie e una vicinanza speciale a Rosalba, che avrebbe dovuto parlare stasera, ma che per un grave lutto è stata costretta a rimandare. Anticipiamo così l’approfondimento dell’ultimo articolo del Credo, che riguarda l’escatologia, quelli che una volta si chiamavano i novissimi, cioè le realtà ultime: “la risurrezione della carne e la vita eterna”, come professa il Simbolo apostolico, o “la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, come professa il Simbolo niceno-costantinopolitano.

1. OBBLIGO DI SOSTA TEMPORANEA SULLA MORTE
In tutte e due le formule del Credo le parole chiave sono: risurrezione e vita: entrambe hanno un solo contrario, una sola parola – terribile – che le fronteggia: la parola “morte”, il contrario sia di “risurrezione”, che di “vita”. Da questo contrario parte la nostra riflessione, perché è un macigno che non va subito rimosso.
1.1. I tentativi di rimozione
Esistono vari modi per tentare di rimuovere la morte: aggirarla, censurarla, spettacolarizzarla. C’è chi tenta l’aggiramento, chi prova a vivere come se la morte non esistesse, come se si potesse esorcizzare con un ragionamento. L’esempio più geniale e famoso si trova in un frammento di Epicuro, tre secoli prima di Cristo:
Il male più spaventoso, la morte, non è niente per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi (Lettera a Meneceo sulla felicità, fr. 125).

È attraente come prospettiva, ma purtroppo non consola nessuno. O meglio, può consolare chi ragiona solo alla prima persona singolare, facendo i conti unicamente con se stesso. Uno può pensare nei termini di quel bambino che offrì il titolo al libro del maestro D’Orta Io speriamo che me la cavo: sono abbastanza in salute, vivo nella parte del mondo ricca e possiedo quello che mi serve, anzi forse di più, mi auguro di evitare incidenti e malattie gravi… insomma, con un po’ di slalom tra i pericoli e un po’ di fortuna, magari mi andrà bene. Il fatto è che, però, la vita non è mai alla prima persona singolare, ma è un intreccio di esistenze, una rete di relazioni. La morte con cui devo fare i conti non è solamente la mia, ma – in modo anche più bruciante – è la morte delle persone care. Ogni volta che scompare qualcuno a cui ero legato, con cui avevo condiviso affetti ed esperienze, scompare anche una parte di me, si incide una ferita anche nella mia vita. Per chi suona la campana, intitolava Ernst Hemingway il famoso romanzo del 1940, riprendendo una domanda che si era posto più di tre secoli prima il poeta inglese John Donne, il quale rispondeva così:
Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso. Ogni essere umano è una parte della terra, una parte del tutto (…). La morte di qualsiasi essere umano mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai “per chi suona la campana”: suona per te (Meditazione XVII).

La morte non è solamente una linea finale della mia vita, ma una compagna di viaggio; non mi aspetta al varco sulla pista d’atterraggio, ma si è imbarcata sul mio stesso aereo, vola con tutti i passeggeri. Il poeta inglese parlava dell’umanità in generale, e sicuramente il fatto di sapere che ogni giorno nel mondo muoiono circa 140.000 persone, tre ogni cinque secondi, rende conto della serietà della morte. Ma non è il dato statistico che mi impressiona. Ed è certamente utile sapere che, passati i vent’anni sono più le cellule che muoiono, nel mio corpo, di quelle che si rigenerano. Però neanche questo, tutto sommato, mi affligge, pur avvertendo bene i segni fisici del tempo che passa. Quello che invece mi ferisce nel profondo è la scomparsa delle persone a cui voglio bene. Dunque, inutile tentare di aggirare la morte, perché si presenta comunque da sola. La postura più saggia passa attraverso il realismo, che non deve diventare incubo, ma accettazione della mortalità. “Come l’erba sono i giorni dell’uomo”, avverte la sapienza biblica (cf. Sal 103,15-16; 144,3-4; Is 40,6).

Risulta così stolto anche un altro tentativo di rimuovere la morte, la censura: so bene che esiste, che è dolorosa, ma mi stordisco per non pensarci; mi concentro su altre cose, non ci faccio caso. Negli ultimi decenni la censura della morte non è più un fatto individuale, ma è diventata un costume sociale. Se prima il tabù era la sessualità, oggi è la morte. L’evento del morire sottratto generalmente alla casa e alla famiglia, l’affidamento dei defunti alle agenzie specializzate, l’esclusione sistematica del tema dalle conversazioni, hanno portato ad una censura sociale della morte. O meglio, avevano portato fino a due anni fa: perché ora la pandemia, in una maniera inedita almeno dalla seconda guerra mondiale ad oggi, ha rimesso in primo piano l’argomento. Il quotidiano bollettino dei morti da o con il covid-19, ha creato un clima planetario di paura, reinserendo il tema della morte nella vita domestica.
Con il rischio, però, di cadere in un altro modo ancora di rimuovere la morte: la spettacolarizzazione. I cari vecchi film western mostravano tanti morti fra gli indiani, che ovviamente erano i cattivi; più recentemente i cartoni animati o i giochi digitali dove vengono uccisi “gli altri” scaricano gli istinti di vendetta; più seriamente, le immagini di guerra e i video estremi, che attirano molte persone, presentano spesso immagini di morte violenta. Qualcuno parlerà, come per l’antica tragedia, di effetto catartico, cioè “purificatore”; in realtà sembra che ci sia soprattutto un effetto scaramantico: se tocca a loro, non tocca a me. E quando la morte diventa spettacolo, crea inconsciamente l’illusione che sia una fiction, una grande recita.

1.2. Gesù, i cristiani e la condivisione della morte
A questo punto ci si potrebbe attendere la soluzione magica, la fede: chi crede non ha paura della morte, mentre chi non crede ne rimane atterrito. Ma non è così facile. Ci sono credenti scioccati dalla morte e non credenti che sembrano attraversarla con serenità. Gesù, del resto, non è stato tranquillo davanti alla morte. Anzi, l’ha presa sul serio, non l’ha affrontata come una passeggiata. Aveva annunciato il regno di Dio e la risurrezione, ma ciononostante si commuove profondamente e scoppia in pianto alla morte di Lazzaro (cf. Gv 11,33.35), prova compassione al funerale del figlio della vedova di Nain (cf. Lc 7,13) ed emette “forti grida e lacrime” (Ebr 5,7) nell’Orto degli Ulivi. La fede cristiana prende sul serio la vita terrena e non la ritiene solo una parentesi in attesa dell’eternità. Il dolore di Cristo di fronte alla morte propria e altrui è la misura della serietà di questa vita. Perché la risurrezione possa accadere, è necessario entrare nel tunnel della morte. Le due parole finali del Credo, risurrezione e vita, prendono forma solo passando attraverso la serietà della morte.
Non usciamo dunque troppo presto dal sepolcro. Sappiamo quanto sia facile lanciare messaggi sulla vita eterna, quando la morte riguarda gli altri o quando la osserviamo come spettatori. Ma il messaggio di vita incide se prima condividiamo la durezza della morte. Consolare non è illudere; consolare è porsi accanto, portare insieme il peso. Gesù portava il peso di tutta la vicenda umana e, nella croce, concentrava ogni sofferenza e ogni solitudine: non solo il dolore fisico, tremendo, ma anche il dolore morale dell’abbandono da parte delle folle e dei discepoli e il dolore spirituale del senso di abbandono da parte del Padre. La morte lui l’ha patita come nessun altro, perché si è addossato la morte di tutti. Socrate, che credeva nell’immortalità dell’anima, quattro secoli prima di Gesù poteva morire sereno, attorniato dai discepoli, vivendo la sua morte come liberazione dal corpo e ingresso in un sonno ristoratore; Gesù, che professava non solo l’immortalità dell’anima, ma la
risurrezione della carne, non poteva morire serenamente, perché il suo corpo era la sintesi di tutta la fragilità umana.

Come metterci dunque di fronte alla morte da cristiani? Come evitare la rimozione e la censura? Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, a metà del Settecento, pubblicò un libro che ha avuto un successo incredibile: Apparecchio alla morte; e il grande teologo Roberto Bellarmino, 150 prima, scrisse: L’arte di morire bene. Sono libri densi di sapienza, che dicono come per prepararsi alla morte occorra, semplicemente, vivere bene, cioè vivere donandosi, affidandosi. Non ci si prepara alla morte con la fuga o il terrore, ma con l’amore. Ci si prepara intrecciando la propria esistenza con quella degli altri nella forma del dono di sé. Questa è la grande novità cristiana: l’amore rimane per sempre, l’amore oltrepassa il velo della morte.

1.3. Il duello tra amore e morte
Gli antichi ebrei non credevano né all’immortalità dell’anima né alla risurrezione dei morti, ma mettevano tutto l’accento della fede su questa vita terrena. Solo alcuni decenni prima dell’avvento di Cristo spuntò nella teologia ebraica la tesi dell’immortalità dell’anima, nel libro della Sapienza, scritto in greco, e la tesi della risurrezione dei morti, nei libri dei Maccabei, di cui pure esiste solo la versione greca. Pur facendo parte della Bibbia cristiana come libri dell’Antico Testamento, Sapienza e Maccabei non sono riconosciuti dagli ebrei tra i grandi testi ispirati. L’ebraismo classico non professa una fede nella vita dopo la morte. Tuttavia gli ebrei, sperimentando un Dio misericordioso, avevano compreso che c’è un’altra potenza che può fronteggiare la morte: l’amore. Per questo il Cantico dei Cantici, uno dei testi più affascinanti della Bibbia, arriva ad esclamare: “forte come la morte è l’amore” (Cant 8,6).

Ma occorreva un salto ancora più ardito, per passare dal comparativo di uguaglianza al comparativo di maggioranza e si potesse dire, con San Paolo, “l’amore non avrà mai fine”” (1 Cor 13,8). Cioè: “forte più della morte è l’amore”. Se “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16), allora la morte non è l’ultima parola, ma la penultima; l’ultima è l’amore, cioè Dio stesso; la morte ci conduce “faccia a faccia” (1 Cor 13,12) con un Dio che è amore. Proprio questa prospettiva, tipicamente cristiana, rende consistente la nostra vita terrena. Se infatti il nostro destino eterno fosse solo la conoscenza di Dio, ci dovremmo preparare studiando e imparando; ma se il nostro destino eterno è l’amore di Dio, anzi un Dio che è amore, allora ci prepariamo amando. L’amore, per Gesù, non è però un semplice sentimento, ma un comandamento: è la decisione di donarsi, di volere il bene ad ogni costo, di andare incontro anche a quelli che non attirano amore. Marx aveva scritto che la religione è l’oppio del popolo, è alienazione, porta lontano dalla dura realtà, illudendo la gente che esista un altro mondo. Ma la fede cristiana non “porta fuori” rispetto a questa vita, anzi “porta dentro”, immerge più profondamente nell’esistenza terrena, perché chiede di spendersi adesso: noi prepariamo qui la nostra vita eterna. Se anche solo un bicchiere d’acqua fresca avrà la sua ricompensa (cf. Mt 10,42), significa che la vita piena, la vita eterna, la costruiamo quaggiù ogni giorno, nella misura in cui amiamo nella forma del dono.

Vivendo questa prospettiva, la morte non ci troverà né disinvolti né disperati, ma allenati. Non dobbiamo immaginarla, da cristiani, come una strada liscia e agevole, ma nemmeno come un muro invalicabile, contro il quale si vada a sbattere. Noi abbiamo dentro una domanda di vita, una nozione di eternità (cf. Qo 3,11), siamo un grande punto interrogativo a noi stessi. La sapienza greca e la sapienza biblica pongono continuamente la questione del senso della vita. E se davvero è sufficiente un virus 600 volte più piccolo del diametro di un capello, o un momento di distrazione alla guida, perché la vita con le sue gioie e i suoi sacrifici vada a sbattere e si frantumi; se davvero bastasse un attimo di sconforto, o un terremoto, o il gesto violento di un aggressore, perché si recidano sogni, progetti, desideri: allora dovremmo dire che siamo su Scherzi a parte, ma senza lieto fine; dovremmo ammettere che siamo gli esseri più sfortunati dell’universo conosciuto, perché abbiamo nel cuore una domanda di senso, un desiderio di pienezza, destinato a naufragare. Sarebbero molto più fortunati gli animali e le piante, che vivono senza domande esistenziali; se la morte fosse la fine di tutto, noi esseri umani saremmo dentro ad un tragico gioco del nulla o di una divinità cattiva. Se invece il nostro destino è l’amore, allora vale la pena di giocarci. È diverso percorrere un sentiero senza sapere quale sarà la meta, o pensando che alla fine ci sia un baratro in cui precipitare, o percorrerla invece sapendo che alla fine c’è un panorama. Il credente non trova una corsia preferenziale, ma percorre la strada di
tutti, sapendo però che esiste una meta bella. Non è diverso il cammino, è diverso il cuore di chi cammina. Così, da cristiani, la morte, anziché un muro, possiamo immaginarla come un ponte. Non il ponte di Brooklyn, solido e maestoso, ma uno di quei ponticelli fatto di assi di legno legate assieme e dondolanti, che qualche volta si trovano nei sentieri di alta montagna, quando si deve attraversare un fiume o percorrere una via che collega due speroni di roccia. Ci si mettono i piedi, affidandosi, e si comincia a dondolare, ma poi si arriva dall’altra parte. La morte me la immagino così: un ponticello ardito, dondolante, che però conduce ad una sponda più bella. Bella, nella misura in cui mi sarò donato, nella misura in cui avrò amato.

1.4. E la fede a cosa serve allora?
Ma la fede a cosa serve? Se il paradiso è il regno dell’amore, non si può raggiungere anche senza la fede? Più o meno questa è la domanda che alcune settimane fa mi ha rivolto l’autista di un taxi preso alla Stazione Termini. Vedendo il colletto e accertatosi che fossi – secondo le sue parole – “un prete vero”, ha cominciato a parlare di religione. Da tempo non sentivo un accento romano così pronunciato e per una mezz’oretta mi è sembrato di essere dentro al film Il tassinaro con Alberto Sordi. Ad un certo punto il dialogo è finito sulla vita eterna, con una sua precisa questione: “ma io, se nun vado a Messa, ce posso anna’ ar paradiso?”. Ho iniziato a rispondere con qualche idea sulla fede e sull’amore, ma – evidentemente annoiato – mi ha interrotto informandomi che lui confida nel fatto che a Messa ci va sua moglie, che poi comunque lei ha un carattere pessimo, e quindi lui si chiede se davvero la Messa conta. Arrivati a destinazione, aveva ancora una domanda, se cioè la Messa valeva anche alla televisione e se in ogni caso lui avesse potuto scambiarla validamente con una trasmissione più interessante, “perché a me me piasce di più ‘Chi l’ha visto?’”.
In fondo quel simpatico tassista ha riformulato in romanesco la questione seria dell’uomo (o giovane) ricco: “che cosa devo fare per avere la vita eterna?” (Mc 10,17). La risposta di Gesù è proprio sul piano dell’amore: “va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, poi vieni e seguimi” (Mc 10,21). Un amore declinato in tre azioni: vendere i beni, cioè distacco, libertà interiore; dare ai poveri (non: buttarli nel fiume), cioè condivisione; seguire Gesù, cioè sequela per amore. Gesù dunque risponde esaltando l’amore come dono. Per “entrare nel regno dei cieli”, dunque non basta dire: “Signore, Signore”, ma occorre compiere la volontà del Padre (cf. Mt 7,21). Una fede che non diventa amore – o per dirla con Paolo “una fede che (non) opera per mezzo della carità” (Gal 5,6) – non è salvifica. Scrive San Giovanni della Croce, mistico del Cinquecento: “Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore” (Parole di vita e di amore, 57).

Se è l’amore che salva, la fede allora – ripetiamo – a cosa serve? Certamente non serve a sostituire l’amore, ma a radicarlo più in profondità. La fede permette di vedere l’altro con gli occhi e il sorriso di Dio e quindi dà una consistenza maggiore all’amore, fa spazio alla grazia e non solo alle proprie capacità e opere. Gesù del resto, nell’ultimo discorso prima della cena finale, lo ha detto chiaramente: il giudizio sarà su come avremo aiutato e accolto l’affamato, l’assetato, il povero, il carcerato, il malato e lo straniero. Tutto ciò che avremo fatto al “piccolo”, all’ultimo, l’avremo fatto a lui (cf. Mt 25,31-46). Le opere di misericordia corporali e spirituali, nella tradizione catechistica della Chiesa, sono la mappa della salvezza, i temi dell’esame finale, la stella polare della nostra vita. Si salva chi ama, soprattutto chi ama coloro che non attirano l’amore, che non risultano amabili o che non possono contraccambiare. Qui l’amore mostra la sua intima connessione con la giustizia e dimostra di davvero di non essere un vago sentimento. Qui si vede davvero la gratuità del dono: “se amate quelli che amano, quale merito ne avete?” (Mt 5,46). Questo è l’amore che perfora la morte: un amore che va oltre il dovuto e colma le ingiustizie.
Il ponticello della morte è dunque talmente stretto, che uno non lo può attraversare con un carico voluminoso, ma solo con uno zainetto: restano su questa sponda terrena gli onori e i titoli accumulati, i beni raccolti, i meriti acquisiti; entrano invece nello zainetto e passano dal ponticello i gesti d’amore, dal più piccolo al più grande. La morte trattiene tutto, tranne l’amore.

2. DIVIETO DI SOSTA PERMANENTE SULLA MORTE
Sono solo parole? No, per chi crede c’è un fatto alla base: la risurrezione di Gesù. Non è un fatto come gli altri, un avvenimento storico sullo stesso piano; è un fatto “escatologico”, cioè un evento definitivo avvenuto nella storia che però la supera, anzi le dà una nuova direzione. Tutto, per noi, riparte da lì, dal mattino di Pasqua.

2.1. Il corpo risorto è il paradiso
Non un ragionamento ci conduce a credere alla vita eterna – questo lo facevano già i greci, che cercavano di dimostrare con la ragione l’esistenza dell’anima immortale – ma l’adesione ad un’esperienza, che i primi testimoni hanno espresso con la parola apparizioni. Gesù era di nuovo vivo, e loro – donne e uomini – l’hanno incontrato. Ma non era tornato alla vita di prima, non aveva ripreso il suo corpo tale e quale, dopo una breve parentesi di pochi giorni; no: era vivo di un’esistenza diversa, gloriosa, era entrato nel mondo del Padre.
Mostrava però le ferite della croce (cf. Gv 21,19-29), perché era lui e non un altro, aveva un corpo trasfigurato e non era un’anima vagante, un fantasma. Passava le porte chiuse, però mangiava con loro. Era entrato in una nuova dimensione. Questa esperienza, che coinvolse tante persone (cf. 1 Cor 15,3-8), sprigionò un’impressionante energia, tale da rimettere in moto i discepoli, prima dispersi. È dalla risurrezione di Gesù che noi prendiamo le misure per la nostra fede nel dopo-morte. Per questo ogni Credo professa prima la risurrezione e poi la vita eterna. Noi non crediamo solamente all’anima immortale: nessun Simbolo di fede termina con: “credo nell’immortalità dell’anima”. Noi crediamo che il punto d’arrivo sia la risurrezione della carne, perché l’amore di Dio è talmente grande che ci vuole salvare integralmente, non vuole con sé solo una parte di noi, l’anima, ma vuole accoglierci totalmente, anima e corpo. Lo specifico escatologico cristiano è proprio l’integralità della salvezza; l’anima separata, semmai, è una fase transitoria, uno “stadio intermedio” in attesa della risurrezione finale.

Del resto, se l’amore è il contenuto della vita eterna, in quanto nome proprio di Dio, il corpo non può restare escluso dalla salvezza. Amare significa creare legami nella forma del dono; e i legami, in questa vita terrena, passano attraverso il corpo; che non è, per i cristiani, una semplice appendice dell’anima, né tantomeno la sua prigione o il luogo in cui l’anima viene punita, come pensavano alcune religioni e filosofie antiche. Per i cristiani il corpo, la carne, è il luogo della salvezza, come ci è stato già ricordato negli incontri precedenti. Tanto che alcuni pagani, nella loro polemica contro i cristiani, li accusavano di idolatrare il corpo e offendere la nobiltà dell’anima. Alcuni critici – una volta c’erano i critici seri – scrivevano che il cristianesimo è la religione degli schiavi, perché i suoi aderenti sono “gente che ama il corpo” (Celso): una fede così bassa che pensa addirittura ad un Dio fatto carne. Non si era mai sentito.

Il corpo dunque, nella tradizione cristiana, è la sede dei legami, il luogo delle relazioni. Dio ci ha creato corporei perché potessimo vincolarci a un tempo e a uno spazio; il corpo è come l’àncora che ci mantiene legati ad un momento della storia, quello in cui viviamo, e ad un luogo, quello in cui ci muoviamo. Se Dio ci avesse fatti puri spiriti, non saremmo “costretti” a legarci, potremmo svolazzare nel tempo e nello spazio, non costruiremmo delle relazioni incisive. Siamo corporei per poter amare nel concreto. E creandoci oltretutto maschi e femmine, ha inciso nel nostro stesso corpo la cifra dell’incompletezza: nessuno è “tutto” l’essere umano, ma ciascuno ha bisogno dell’altro, diverso da sé, per completarsi. Il corpo, insomma, è come il diario fedele della nostra vita: registra il tempo che passa – in realtà passa proprio il corpo – con i segni dell’avanzare dell’età. Il corpo può essere curato o punito, accolto o eliminato. E “il Verbo si è fatto carne”: così nella carne di ogni essere umano, nessuno escluso, è stata iniettata una forza di vita.

Che cosa significa però che il nostro corpo risorgerà? La pietra di paragone è il corpo risorto di Gesù; come dice San Paolo pensando proprio al Signore glorificato (cf. 1 Cor 15), risorgeremo con un corpo spirituale; che per i Corinti, ai quali scriveva, era un controsenso: formati alla cultura greca, faticavano a mettere insieme corpo e spirito; ma proprio questa commistione è l’elemento originale della fede cristiana. Per parlare della nostra risurrezione noi non dobbiamo attivare l’immaginazione, estranea alle Scritture, ma pensare piuttosto a ciò che ci riempie di gioia profonda, a ciò che attiva
tutte le fibre del nostro corpo, a ciò che ci dà energia e senso di pienezza. Così avremo almeno una pallida idea della risurrezione della carne, che sarà il compimento di ogni germe di amore vissuto in questa esistenza corporea. Un abbraccio stretto da parte del Signore e delle persone con cui nella vita abbiamo vissuto relazioni di dono, ricevuto e trasmesso. Questo è il paradiso: la pienezza dei legami buoni.

2.2. Inferno e purgatorio
Il paradiso è aperto a tutti? Sì, di questo siamo sicuri, perché “Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1 Tim 2,4). Da parte del Signore, quindi, certamente non c’è discriminazione; come afferma il Concilio Vaticano II, facendo sintesi di diversi passi del Nuovo Testamento, la salvezza pasquale si apre a tutti gli esseri umani:
E ciò vale non solamente per i cristiani, ma anche per tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia. Cristo, infatti, è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina; perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale (Gaudium et Spes n. 22).

Ogni essere umano, dunque, se accoglie con sincerità e coscienza retta la via che concretamente gli si presenta davanti, può arrivare alla salvezza eterna. Ma allora – altra domanda – tutti si salveranno? Questo non lo sappiamo; possiamo sperarlo, ma non dichiararlo, perché la nostra libertà potrebbe portarci anche ad un “no” completo all’amore verso Dio e il prossimo. L’esistenza dell’inferno, al di là dell’immaginario dantesco che talvolta viene preso alla lettera e che, se un tempo favoriva il timore, oggi favorisce piuttosto l’ironia, è un dato certo della rivelazione cristiana. Basterebbe, per citare solo un testo, ritornare al discorso di Gesù sul giudizio finale, con quel terribile passaggio: “Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli!” (Mt 25,41). Il Figlio dell’uomo pronuncia questa tremenda sentenza su quelli che stanno alla sua sinistra, le capre, quelli che non hanno accolto l’affamato, l’assetato, il povero, il prigioniero, lo straniero, il malato, e quindi non hanno accolto lui. Se Gesù ci ammonisce in modo così pesante, evidentemente è possibile anche arrivare a questo punto: negare ogni gesto di dono, rifiutare ogni offerta d’amore, tranciare il benché minimo legame. In tal caso, il Signore non potrebbe portare a pienezza nulla: uno si presenterebbe davanti a lui a mani vuote, e perfino sanguinanti, perché l’indifferenza non è meno crudele della violenza. È possibile che nella vita una persona si chiuda totalmente all’amore, ma noi non sappiamo se sia mai accaduto o se accadrà. La Chiesa proclama dei santi, e moltissimi altri certamente lo sono senza essere riconosciuti – “i santi della porta accanto” li chiama papa Francesco – ma non proclama mai dei dannati; esiste un albo dei santi, ma non un albo dei dannati. Solo Dio conosce il cuore dell’uomo al punto da poter discernere le pecore dalle capre. Esiste dunque una asimmetria tra paradiso e inferno: il paradiso è una realtà possibile (a tutti), l’inferno è una possibilità reale (della nostra libertà).
Probabilmente però, come scrive Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza (cf. Spe salvi, nn. 46-47), ciascuno di noi si presenterà al Signore con un misto di bene di male. Potremmo dire che ciascuno di noi sarà, nel giudizio finale, un po’ pecora e un po’ capra, perché è difficile immaginare uno che nella vita si sia totalmente aperto all’amore e un altro che si sia totalmente chiuso. È dunque pensabile che tutti vivremo quel passaggio che ha preso il nome, non felicissimo di purgatorio. Anche in questo caso occorre evitare di cadere al in rappresentazioni grottesche: già il Concilio di Trento, nel 1563, raccomandava ai pastori, circa il purgatorio, che:
proibiscano, come scandali e inciampi per i fedeli, quelle questioni che servono solo ad una certa curiosità e superstizione e sanno di speculazione (Sess. XXV).

Purtroppo, anche in tempi recenti, il purgatorio ha scatenato la fantasia misticheggiante di alcuni cosiddetti “veggenti” che ne descrivono perfino la topografia, sanno quanti ci entrano e quanto tempo ci restano, e così via delirando. Giustamente papa Benedetto invita a leggere il purgatorio nella categoria dell’incontro con il Signore: non un “luogo”, che abbia una “durata temporale”, ma un “incontro” che ha una “intensità”. Nel momento della morte, cioè, incontreremo uno sguardo d’amore. L’immagine del fuoco non è affatto da buttare, ma da interpretare:
Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa, come attraverso il fuoco. È, tuttavia, un dolore beato (…). Il dolore dell’amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia (Spe salvi, n. 47).

Un’idea del purgatorio la dà l’incrocio tra lo sguardo di Gesù e quello di Pietro, subito dopo il rinnegamento:
…“il gallo cantò. E il Signore, voltatosi, guardò Pietro; e Pietro si ricordò della parola che il Signore gli aveva detta: ‘Oggi, prima che il gallo canti, tu mi rinnegherai tre volte’. E, andato fuori, pianse amaramente (Lc 22,60-62).
Il pianto di Pietro è un misto di dolore e consolazione, sofferenza e liberazione; scaturisce dallo sguardo di Gesù, che è sempre uno sguardo d’amore, e che fa capire all’apostolo sia la gravità del suo peccato sia la grandezza della misericordia del Maestro. Quando incrociamo lo sguardo di una persona che ci ama sinceramente, facciamo anche verità su noi stessi e misuriamo la qualità della nostra risposta. Quando incroceremo lo sguardo del Signore, nella nostra morte, misureremo in quel momento la distanza tra il suo amore e il nostro, tra i doni che lui ci aveva fornito e la nostra risposta. E sarà un “fuoco” che purifica, dove l’amore sarà misto al dolore; ma sarà una sofferenza consolata, un rimprovero dentro ad un abbraccio.

2.3. Il giudizio finale
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Cinquant’anni fa, tra gli studenti dell’epoca, si facevano manifestazioni e sfilate per ottenere “il sei politico”, cioè la promozione garantita, indipendentemente dal fatto che uno studiasse o meno. Da alcuni era accampato come un diritto, mentre ritenevano una discriminazione l’esame di riparazione a settembre e ancora di più la bocciatura. Il paragone non sembri irrispettoso, ma chi pretende che non ci sia alcun giudizio alla fine della vita, assomiglia agli studenti del “sei politico”: paradiso garantito, purgatorio e inferno discriminatòri. In realtà il giudizio di Dio è la vera garanzia della giustizia. Se non vi fosse una discriminazione finale tra il bene e il male – ripeto, non tanto tra i buoni e i cattivi con la riga in mezzo, come si faceva un tempo alla lavagna, ma tra il bene e il male che sono nel cuore di ciascuno – allora non avrebbe senso impegnarsi per la giustizia. Se non ci fosse un giudizio, ci sarebbe una somma ingiustizia; quello che sembra iper-misericordioso sarebbe in realtà iper-ingiusto: perché alla fine l’avrebbero vinta i violenti e non i miti, i guerrafondai e non gli operatori di pace, i persecutori e non i perseguitati, gli iniqui e non gli assetati di giustizia. Tanto varrebbe comportarsi secondo il proprio istinto egoistico, che richiede certo meno sforzo rispetto all’amore e al dono di sé. E gli oppressi rimarrebbero tali per sempre.
La scommessa dell’escatologia cristiana, allora, non è semplicemente sulla sorte del singolo, ma sulla sorte dell’umanità. Ci sarà o no un riscatto per chi ha subìto ingiustizie, per chi è stato crocifisso, per le vittime della violenza e dell’indifferenza, o tutto terminerà sotto “un pietoso velo” che coprirà ogni cosa? Se la morte fosse la fine di tutto, secondo l’ipotesi atea, o se tutti arrivassero alla salvezza indipendentemente da come hanno vissuto, secondo l’ipotesi iper-misericordiosa, il risultato sarebbe lo stesso: da una parte i vinti resterebbero per sempre vinti, e dall’altra gli operatori di pace non avrebbero alcun interesse ad impegnarsi per la giustizia. L’eternità, invece, è riscatto per le ingiustizie subìte e pienezza per la giustizia operata. Le beatitudini non sono affatto il manifesto dei rassegnati, ma l’annuncio di una salvezza sia per chi avrà sofferto (afflitti, perseguitati, oppressi), sia per chi avrà amato (miti, operatori di pace e di giustizia).

2.4. La vita del mondo che verrà
La risurrezione di Gesù si dilaterà fino a coinvolgere non solo l’intera umanità – risurrezione della carne – ma anche l’intero cosmo. Nel Credo degli apostoli noi professiamo, dopo la risurrezione dei morti, “la vita del mondo che verrà”. La “fine del mondo” è certa, più volte annunciata da Gesù stesso, ma non è possibile e neppure sano stabilire delle scadenze. Al tempo di Gesù, in realtà, la cultura dominante nell’impero romano non ammetteva affatto la fine del mondo: il grande filosofo greco Aristotele, che insieme a Platone dominava la scena, aveva sostenuto che il mondo è eterno: esiste da sempre ed esisterà per sempre. L’idea di un inizio e di una fine temporale del cosmo è di origine biblica. Gli ebrei, con la fede in un Dio creatore, avevano guadagnato l’idea che l’universo ha avuto un inizio e che, dunque, finirà (“il giorno di Dio” lo chiameranno i profeti). Gesù e i suoi discepoli, che erano ebrei, abbracciano la stessa visione: per questo Gesù non solo accetta l’idea della risurrezione dei morti, ma anche quella della fine del mondo. Per ebrei e cristiani, dunque, solo Dio è eterno, mentre ogni sua creatura è mortale, cosmo compreso.

Sulla fine del mondo esiste, come sull’inferno e sul purgatorio, una letteratura fantasiosa, che ha poco a che vedere con le verità bibliche. Gesù, parlandone, usa un linguaggio apocalittico, cioè un linguaggio tecnico, che va decriptato. Quando parla di segni nel sole e nella luna, di stelle che cadono e di altri segni nel cielo (cf. Mc 14,5-23), usa delle immagini che al suo tempo erano bene note e significavano semplicemente che questo mondo, con le sue eccellenze – astri, sole e luna erano perfino divinizzati dai popoli vicini a Israele – lasceranno il passo ad una nuova creazione. L’Apocalisse di Giovanni parla infatti di “nuovi cieli e una nuova terra” (21,1); la stessa immagine è ripresa nella Seconda lettera di Pietro: “noi aspettiamo nuovi cieli e terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia” (2 Pt 3,13). In queste poche parole è riassunto ciò che sappiamo della fine del mondo, o meglio della sua trasfigurazione, come afferma il Vaticano II in un testo molto incisivo, che richiama diversi passi biblici:
Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità e non sappiamo in che modo sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo però dalla rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini. Allora, vinta la morte, i figli di Dio saranno risuscitati in Cristo, e ciò che fu seminato in infermità e corruzione rivestirà l’incorruttibilità; resterà la carità con i suoi frutti e sarà liberata dalla schiavitù della vanità tutta quella realtà che Dio ha creato appunto per l’uomo (…) Quei valori, quali la dignità dell’uomo, la comunione fraterna e la libertà, e cioè tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, quando il Cristo rimetterà al Padre ‘il regno eterno ed universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace’ (Gaudium et Spes n. 39).

L’accento della rivelazione cristiana non è tanto sulla fine del mondo, quanto sul fine del mondo, sulla nuova vita nella quale l’intera creazione entrerà: un fine di amore, di giustizia, di pace. Una delle metafore più efficaci, per indicare questo passaggio, è quella del parto. La usa Paolo, dipingendo uno dei quadri teologici più maestosi di quella che papa Francesco chiamerà ecologia integrale:
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa, e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo (Rom 8,19-23).

L’immagine è potente, e possono capirla bene solo le mamme: Paolo paragona la situazione attuale della creazione, nella quale anche noi esseri umani siamo immersi, ad una donna che sta per dare alla luce un bimbo; e usa il verbo gemere, cioè lamentarsi per il dolore. È un verso di morte e di vita assieme, segna un passaggio decisivo, definisce un’attesa fatta di dolore e di speranza insieme. La trasfigurazione del creato sarà dunque una vita nuova, che passa attraverso la fine della vita di prima – come un bimbo passa dal grembo della madre all’aria aperta – e segna un progresso. E Paolo mette in relazione il gemito dell’intera creazione con il gemito del nostro corpo; entrambi attendono la redenzione. In questi due anni di pandemia il doppio gemito, del creato e del corpo, assume una concretezza e un’attualità impressionanti.
Ma l’aspetto più intrigante è il fatto che Gesù stesso aveva utilizzato la metafora del parto, in un contesto però apparente

mente molto diverso. Nel suo ultimo discorso, prima della notte di preghiera al Getsemani, dice ai discepoli:
La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi,
ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia (Gv 16,21-22).

Gesù si riferisce agli eventi imminenti della sua morte e glorificazione, paragonandoli alle due esperienze della madre nel parto: il dolore e la gioia; i discepoli stanno per vivere una specie di parto, un passaggio doloroso ad una vita più bella, ad una gioia definitiva. La stessa Pasqua di Gesù, del resto è stata un parto, tra il dolore del venerdì e la gioia della domenica. Non a caso Paolo richiama la stessa immagine in termini cosmici: la trasfigurazione del mondo è come la dilatazione della Pasqua di Gesù, l’estensione del mistero della croce gloriosa all’intero cosmo.

Per concludere, dunque, c’è un unico grande evento escatologico, un solo avvenimento nel quale si concentra tutto il senso della nostra vita e della nostra morte, nel quale è ricoverata ogni sofferenza umana, nel quale è racchiusa ogni speranza: la Pasqua di Gesù. La morte non è altro che la partecipazione alla croce di Gesù; il paradiso e la risurrezione finale sono la Pasqua che investe tutto il nostro essere; il purgatorio è l’incontro doloroso e consolante con l’amore crocifisso e risorto del Signore; l’inferno è il rifiuto caparbio della salvezza; la trasfigurazione del mondo è l’abbraccio del Signore morto e risorto all’intero creato.