Editoriale n. 05 del 9 febbraio 2020

L’esperienza “miracolosa” della reciprocità

Nell’attuale società, dominata dai miti dell’efficienza e della prestanza, malattia e morte sono oscurate e la loro esperienza è rinchiusa in luoghi isolati.

Anche le immagini di sofferenza propinateci dai mass-media, proprio per la loro frequenza, finiscono per anestetizzarci, per renderci insensibili verso ciò che appare inevitabile o, al massimo, degno di uno sbrigativo aiuto finanziario come scarico di coscienza.

Conseguenze: crescente fragilità, soprattutto dei giovani davanti alle difficoltà, mancanza di fiducia negli altri e nel futuro, drammatica solitudine di chi è reso vulnerabile fisicamente e psicologicamente dalla malattia.

Prendersi cura dei deboli, degli emarginati, dei malati, dedicare loro tempo e profonda attenzione non può derivare solo da individuali sensi di colpa e nemmeno da un puro istinto caritatevole, moventi positivi in fase iniziale, ma destinati a soccombere davanti a necessità sociali crescenti e alla complessità istituzionale.

Le tante associazioni di volontariato presenti sul nostro territorio sono uno strumento per rafforzare, far maturare e sostenere tali sentimenti in modo che diventino consapevole volontà di collaborare al Bene comune, acquisizione di responsabilità di tutti davanti a tutti, capacità di cooperare dentro la comunità per una reale sussidiarietà. Il valore della solidarietà deve essere coltivato e riscoperto nella vita di ogni giorno, interiorizzato e condiviso per essere testimoniato: solo così i volontari diventeranno farmaci presso i malati negli ospedali, nelle

Case per anziani, negli hospice, nelle case private. La parabola del buon samaritano, letta attentamente, ci offre tanti suggerimenti. Il protagonista, per soccorrere il ferito, deve innanzitutto liberarsi da atavici pregiudizi: come non rendersi conto dell’attualità di tale atteggiamento fondamentale per abbattere i tanti muri innalzati in un illusorio tentativo di sicurezza? “I muri lasciano soli coloro che li fabbricano.

Sì, lasciano fuori tanta gente, ma coloro che rimangono dentro i muri resteranno soli e alla fine della storia sconfitti da potenti invasioni” (Papa Francesco). Il samaritano, dopo essersi preso cura del ferito in silenzio, dandogli attenzione, compassione, vicinanza e aiuto pratico, lo accompagna in un luogo protetto, ove cerca la collaborazione di chi possa continuare l’assistenza anche dopo la sua partenza.

Umanità, empatia, dialogo di silenzi e parole legano i tre uomini in diverse posizioni. “Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso, ma un reciproco progresso, un avanzare insieme.

Così nel dialogo… si aprono strade inesplorate” (Enzo Bianchi). Si comprende dunque come essere d’aiuto agli altri significhi esserlo anche a se stessi, acquisendo fiducia nelle proprie capacità, spesso insospettate fino al momento della prova, riconoscendo le proprie emozioni profonde per dominarle e utilizzarle, accettando anche di commettere errori, perché sapersi perdonare significa saper perdonare agli altri.

In ogni curante abita un malato e in ogni malato abita un curante: di qui l’esperienza miracolosa della reciprocità, in cui “la vita dell’altro mi interessa e permette di far nascere situazioni inedite, perché da soli siamo un filo, insieme diventiamo un tessuto (proverbio africano). Il fi lo non copre, non scalda, il tessuto sì” (Monsignor Nunzio Galantino).

Annamaria Ragazzi