Editoriale n. 44 del 15 dicembre 2019

Avvento, tempo che ci interroga

L’Avvento, con il quale ha inizio un nuovo anno liturgico, ci invita, credo, a riscoprire lo stile che noi assumiamo di fronte al tempo. Avvento è Tempo di Attesa: attendere, dunque, è uno dei verbi che risuonano più volte in queste settimane. Attendere non significa restare immobili come se fossimo in un luogo ad aspettare qualcuno per un incontro stabilito. Tutt’altro: attendere significa “tendere-a”, cioè andare incontro, accorciare le distanze. Ed è per questo che attendere non è restare fermi, quasi paralizzati e ansiosi, ma mettersi in movimento. Significa muoversi verso qualcuno o verso qualche situazione: è desiderare con trepidazione un incontro, ma è anche rendersi ospitali e pronti ad accogliere. E così il Tempo di Avvento ci interroga e ci invita a riflettere su come viviamo il nostro tempo, noi che tutti siamo ormai presi dalla fretta, dall’ansia, dalla frenesia e abbiamo reso il tempo malato di schizofrenia, vivendo di corsa per essere, poi, sempre in ritardo tanto che una delle espressioni più usate è “non ho tempo”, e abbiamo insegnato ai più piccoli a dire il suo opposto “non ho voglia”, ovvero il tempo non lo vogliono nemmeno impegnare. Due estremi dai quali dobbiamo fuggire. Questo Tempo di Avvento, dunque, ci invita a rivedere uno stile. Abbiamo bisogno di vivere in un modo differente anzitutto il rapporto che abbiamo con noi stessi, le nostre relazioni, le nostre responsabilità: lì riveliamo chi siamo, e da come viviamo il tempo raccontiamo la nostra persona, il nostro stile, diciamo chi e cosa per noi è importante. Ma vivere bene il tempo, significa anche impegnarsi a trovare un tempo per sé non tanto per escludere gli altri dalla propria vita o per escogitare delle fughe. Avere del tempo per sé significa imparare a vivere le stesse cose, la quotidianità, in un modo differente, in modo pieno, e per farlo dobbiamo prenderci del tempo, cioè dare più spazio: spazio prima di tutto al Signore nella preghiera, nell’Eucarestia, spazio all’ascolto della Sua Parola che sempre ci chiama a conversione. Spazio anche in Avvento per preparare con cura l’“admirabile signum” del presepe a cui ci ha richiamato nei giorni scorsi Papa Francesco. Segno che racconta la nostra appartenenza alla fede, a Cristo, un segno che parla a noi, alla nostra vita, che entra nel nostro cuore. Guardando al presepe contempliamo il tempo in cui “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). L’invito di Gesù è anche quello di vegliare: non è una minaccia la sua, ma una urgenza a cui il cristiano oggi è chiamato. Vegliare significa stare desti, non vivere da assonnati, da sonnambuli, come se fossimo presenti e assenti nello stesso tempo. Vegliare è donare il tempo per qualcosa o per qualcuno a cui tengo. Vegliare è attendere, è desiderare, è sperare. Vegliare, in ultima analisi, è amare. Non possiamo essere distratti e bisogna vincere il sonno dell’abitudine che ci rende sempre più superficiali, apatici, se non peggio accidiosi, giudici severi con l’altro, ma più accondiscendenti con noi stessi. Vigilare significa, perciò, avere più cura di sé: vigiliamo sulle parole superflue, vigiliamo sulle cose e situazioni inutili a cui abbiamo dedicato tempo e che ci hanno fatto perdere tempo. Prendiamo tempo per avere più cura di noi: soprattutto la preghiera, in questo periodo, dovrà trovare il suo giusto spazio perché curare la nostra anima e il nostro rapporto col Signore è nostro dovere e nostra responsabilità. Il presepe racconta quell’attesa. Così potremo prepararci a vivere in modo cristiano il prossimo Natale del Signore Gesù, dove non faremo finta che nascerà di nuovo: Lui è già nato nella storia. E’ già venuto nel mondo per ciascuno di noi. Noi lo attendiamo nella gloria facendo memoria e consapevoli che “grandi cose ha fatto il Signore per noi, ci ha colmati di gioia” (Sal 125,3).

Don Mauro Pancera