La visita di Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo

La Repubblica democratica del Congo, secondo la sua posizione geografica, è il cuore dell’Africa centrale e ha una superficie di 2.345.000 Km2 , otto volte l’Italia, con una popolazione di circa 90 milioni di abitanti. È uno dei Paesi al mondo più ricco in materie prime, tanto da essere definito uno “scandalo geologico” tenendo conto dalle miniere da cui dipende gran parte della tecnologia mondiale: piombo, diamanti, oro, uranio, rame, cobalto, idrocarburi: petrolio e gas naturale presenti ingenti quantità. Possiede la seconda foresta equatoriale al mondo, dopo quella brasiliana, ed è ricca di risorse idriche e di legname. Per capire meglio la situazione attuale di questo paese, bisogna partire dalla sua storia, una situazione socio-culturale e politica sempre travagliata, tenendo conto dalla sua posizione al centro dell’Africa, ma anche a causa delle sue ricchezze di sottosuolo. Rileviamo come già prima che i portoghesi giungessero alle foci del fiume Congo nel 1482, all’interno esistevano vari regni: Kongo, Luba, Kuba, Lunda. Le ricchezze della regione hanno prodotto il fiorire delle grandi esplorazioni del XVIII e XIX secolo, alle quali era interessato soprattutto Leopoldo II, re del Belgio. Nel 1885 fu riconosciuto lo Stato del Congo, nominalmente indipendente, in realtà sotto la sovranità personale di Leopoldo II. Nel 1908 tale finzione cessò e il Congo divenne colonia belga a tutti gli effetti.
Nel 1960 il paese, sotto la spinta del movimento di Lumumba e Kasavubu, ottenne l’indipendenza ma sprofondò quasi subito nella guerra civile. I forti interessi legati allo sfruttamento delle risorse minerarie causarono la secessione delle regioni meridionali e nel 1961 Lumumba fu assassinato. L’avvento di Mobutu al potere nel 1965 segnò la fine della guerra civile ma il nuovo regime operò una graduale “africanizzazione” del paese; rinominò il paese Zaire e lo governò in maniera didattoriale durante trentadue anni reprimendo con violenza il dissenso e istituendo un culto della personalità, fino allo scoppio  della Prima guerra del Congo, che diede inizio a una lunga serie di conflitti durati praticamente un decennio fino ai nostri giorni.
La Chiesa congolese, in questo contesto è stata sempre in prima linea per stare accanto al popolo accompagnando i grandi avvenimenti della storia della sua Patria. Dopo la proclamazione dell’indipendenza (1960), ispirata dagli insegnamenti del Concilio Vaticano II ed animata dall’intrepido cardinale Joseph Malula (arcivescovo di Kinshasa dal 1964 al 1989, forzato all’esilio in contrasto con Mobutu), la Chiesa del Congo ha aiutato il suo popolo nella ricerca della propria identità nazionale, culturale e spirituale. Scelte decisive sono state e rimangono: il cammino di evangelizzazione più comunitario ed incarnato, la nascita e la crescita del clero locale, la valorizzazione del ruolo del laicato, la promozione di una liturgia più inculturata. Se è vero che la R. D. Congo è oggi uno dei Paesi più impoveriti nonostante le ricchezze di cui è favorito, la Chiesa si sente impegnata a dare visibilità all’amore di Dio che salva. Ne fanno fede la presenza attiva su ogni fronte della povertà e l’incessante richiamo ai governanti perché abbiano a cuore gli interessi vitali della gente, evitando di fare della cosa pubblica un tornaconto personale.
Il viaggio apostolico di Papa Francesco nella Repubblica Democratica del Congo, dal 31 gennaio 2023 al 03 febbraio 2023, nonostante la sua età e il suo stato fisico, è stato una testimonianza della sua fede e della “chiesa in uscita”  verso la “periferia” facendo conoscere al mondo il dramma del popolo congolese di fronte alla guerra e ai soprusi, alla corruzione e all’ingiustizia, allo sfruttamento economico delle risorse da parte di paesi stranieri e  all’indifferenza della Comunità internazionale e dei mass-media: “Guardando a questo popolo, si ha l’impressione che la Comunità internazionale si sia quasi rassegnata alla violenza che lo divora. Non possiamo abituarci al sangue che in questo Paese scorre ormai da decenni, mietendo milioni di morti all’insaputa di tanti. Si conosca quanto qui accade”. Sono venuto qui, afferma Papa Francesco, animato dal desiderio di dare voce a chi non ha voce. Quanto vorrei che i media dessero più spazio a questo Paese e all’Africa intera! Che si conoscano i popoli, le culture, le sofferenze e le speranze di questo giovane Continente del futuro! Si scopriranno talenti immensi e storie di vera grandezza umana e cristiana, storie nate in un clima genuino, che ben conosce il rispetto per i più piccoli, per gli anziani e per il creato.
Già dal suo arrivo e durante il suo soggiorno in questo paese il santo Padre ha avuto diversi incontri con realtà varie. Nel primo giorno egli ha incontrato le autorità, la società civile e il Corpo diplomatico. Nel discorso a loro rivolto, egli ha parlato della bellezza di questa terra, al prezioso bene che abbonda nel sottosuolo, ai cuori della gente. Per un futuro di pace e fraternità tutto ciò deve tornare nelle mani dei congolesi, ma serve eliminare la violenza e l’odio etnico, l’ingiustizia e la corruzione, lo sfruttamento economico delle risorse da parte di stranieri: “giù le mani dalla Repubblica Democratica del Congo, giù le mani dall’Africa! Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare. L’Africa sia protagonista del suo destino! Il mondo faccia memoria dei disastri compiuti lungo i secoli a danno delle popolazioni locali e non dimentichi questo Paese e questo Continente. L’Africa, sorriso e speranza del mondo, conti di più: se ne parli maggiormente, abbia più peso e rappresentanza tra le Nazioni!”.
Il giorno dopo, al mattino, nell’Omelia della messa celebrata all’aeroporto di Ndolo, il Pontefice ha citato le parole rivolte da Cristo ai discepoli la sera di Pasqua, «Pace a voi!» (Gv 20,19), che più che un saluto sono una consegna: “Gesù proclama la pace mentre nel cuore dei discepoli ci sono le macerie, annuncia la vita mentre loro sentono dentro la morte. In altre parole, la pace di Gesù arriva nel momento in cui tutto per loro sembrava finito, nel momento più inatteso e insperato, quando non c’erano spiragli di pace. (…) noi siamo chiamati a fare nostro e dire al mondo questo annuncio insperato e profetico del Signore”. “La pace di Gesù, che viene consegnata anche a noi in ogni Messa, è pasquale: arriva con la risurrezione, perché prima il Signore doveva sconfiggere i nostri nemici, il peccato e la morte, e riconciliare il mondo al Padre; doveva provare la nostra solitudine e il nostro abbandono, i nostri inferi, abbracciare e colmare le distanze che ci separavano dalla vita e dalla speranza”. Poi, Papa Francesco ha indicato tre sorgenti di pace per continuare ad alimentarla: il perdono, che nasce da una ferita, ma diventa luogo in cui accogliere le debolezze degli altri e, quindi, un’opportunità di aprirsi all’amore; la comunità, basata su ciò che unisce le persone e sulla condivisione: “Gesù risorto non si rivolge ai singoli discepoli, ma li incontra insieme: parla loro al plurale e alla prima comunità consegna la sua pace. Non c’è cristianesimo senza comunità, come non c’è pace senza fraternità.”; la missione, per portare misericordia a tutti: “i cristiani, mandati da Cristo, sono chiamati per definizione a essere coscienza di pace del mondo: non solo coscienze critiche, ma soprattutto testimoni di amore; non pretendenti dei propri diritti, ma di quelli del Vangelo, che sono la fraternità, l’amore e il perdono; non ricercatori dei propri interessi, ma missionari del folle amore che Dio ha per ciascun essere umano”.
Al pomeriggio il Papa ha incontrato le vittime dell’est del paese e i rappresentanti di alcune opere caritative. Prima di entrare nel merito dell’incontro conviene sottolineare come nel mese di luglio dell’anno scorso egli doveva recarsi anche a Goma, impedito questa volta dall’insicurezza e dalla guerra iniziata nel mese di febbraio 2022 tra un gruppo terroristico chiamato M23 (Movimento del 23 marzo 2012 – sostenuto e armato dall’esercito ruandese secondo numerosi rapporti delle Nazioni Unite) e le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC), l’esercito nazionale. M23 occupa diverse località dalla frontiera con il Ruanda e l’Uganda fino al Nord di Rutshuru, tagliando questi territori dal controllo del governo centrale e dal capo luogo Goma, creando così dei campi a cielo aperto degli sfollati e dei rifugi di fortuna sotto teloni, ripari di paglia o solo una zanzariera, esposti a ogni tipo di intemperie intorno a Goma:  “Si tratta di conflitti che costringono milioni di persone a lasciare le proprie case, provocano gravissime violazioni dei diritti umani, disintegrano il tessuto socio-economico, causano ferite difficili da rimarginare. Sono lotte di parte in cui si intrecciano dinamiche etniche, territoriali e di gruppo; conflitti che hanno a che fare con la proprietà terriera, con l’assenza o la debolezza delle istituzioni, odi in cui si infiltra la blasfemia della violenza in nome di un falso dio. Ma è, soprattutto, la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro, che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione. Che scandalo e che ipocrisia: la gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!”
Alle vittime dell’est che devono vivere in una terra martoriata da conflitti e sfruttamento, Papa Francesco ha detto di essere vicino e, per promuovere la pace, consiglia umilmente di cominciare da due no e da due sì. Il no alla violenza deve disarmare il cuore, perché amare la propria gente non significa nutrire odio nei riguardi degli altri (men che meno in nome di Dio), e il no alla rassegnazione impegna a costruire un futuro migliore, senza lasciarsi andare a scoraggiamento, sconforto e sfiducia. Il sì alla riconciliazione porta a perdonarsi a vicenda, trasformando la realtà da dentro invece che distruggerla da fuori, e con il sì alla speranza, che ha la sorgente in Gesù e va seminata con pazienza ogni giorno, il male non ha più l’ultima parola sulla vita: “Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati. C’è solo da piangere, senza parole, rimanendo in silenzio. Bunia, Beni-Butembo, Goma, Masisi, Rutshuru, Bukavu, Uvira, luoghi che i media internazionali non menzionano quasi mai: qui e altrove tanti fratelli e sorelle nostri, figli della stessa umanità, vengono presi in ostaggio dall’arbitrarietà del più forte, da chi tiene in mano le armi più potenti, armi che continuano a circolare. Il mio cuore è oggi nell’Est di questo immenso Paese, che non avrà pace finché essa non sarà raggiunta lì, nella sua parte orientale”. M23 è spesso accusato di stupro, rapimento e saccheggio di civili: “A voi, cari abitanti dell’Est, voglio dire: vi sono vicino. Le vostre lacrime sono le mie lacrime, il vostro dolore è il mio dolore. A ogni famiglia in lutto o sfollata a causa di villaggi bruciati e altri crimini di guerra, ai sopravvissuti alle violenze sessuali, a ogni bambino e adulto ferito, dico: sono con voi, vorrei portarvi la carezza di Dio”.
Nella giornata del 04 dicembre 2022, i Vescovi di tutte le diocesi congolesi hanno organizzato una processione, una marcia per porre l’attenzion3 sul deteriorare della situazione della sicurezza nel paese in generale e nell’est in particolare, e per porre fine “alla balcanizzazione della RDC” ovvero quello processo di smembramento latente del Paese operato da gruppi armati appoggiati dall’esterno. Il santo Padre ha fotografato molto bene quello che succede proprio all’est del paese: “le violenze armate, i massacri, gli stupri, la distruzione e l’occupazione di villaggi, il saccheggio di campi e di bestiame che continuano a essere perpetrati nella Repubblica Democratica del Congo. E pure il sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese, così come i tentativi di frammentarlo per poterlo gestire. Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi”. Un invito rivolto “a tutte le persone, a tutte le entità, interne ed esterne, che tirano i fili della guerra nella Repubblica Democratica del Congo, depredandola, flagellandola e destabilizzandola. Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti. Ascoltate il grido del loro sangue (cfr Gen 4,10), prestate orecchio alla voce di Dio, che vi chiama alla conversione, e a quella della vostra coscienza: fate tacere le armi, mettete fine alla guerra. Basta! Basta arricchirsi sulla pelle dei più deboli, basta arricchirsi con risorse e soldi sporchi di sangue!” Papa Francesco ha ringraziato e benedetto tutti i seminatori di pace e le istituzioni che si prodigano nell’aiutare e nella lotta per le vittime della violenza e nel promuovere la dignità umana a volte fino a dare la vita, ricordando l’uccisione “dell’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo, assassinati due anni fa nell’Est del Paese. Erano seminatori di speranza e il loro sacrificio non andrà perduto”.
Il Papa si è rivolto al “Padre che è nei cieli, il quale ci vuole tutti fratelli e sorelle in terra: umilmente abbasso il capo e, con il dolore nel cuore, gli chiedo perdono per la violenza dell’uomo sull’uomo. Padre, abbi pietà di noi. Consola le vittime e coloro che soffrono. Converti i cuori di chi compie crudeli atrocità, che gettano infamia sull’umanità intera! E apri gli occhi a coloro che li chiudono o si girano dall’altra parte davanti a questi abomini.”
Davanti agli operatori di opere caritative, il santo Padre è rimasto stupito che gli operatori di opere caritative non gli hanno semplicemente elencato i problemi sociali, ma parlato con affetto dei poveri, con uno sguardo che sa riconoscere Gesù nei suoi fratelli più piccoli.: “Mi ha colpito una cosa: non mi avete semplicemente elencato i problemi sociali e non avete enumerato tanti dati sulla povertà, ma avete soprattutto parlato con affetto dei poveri. Avete raccontato di voi e di persone che prima non conoscevate e che ora vi sono diventate familiari: nomi e volti. Grazie per questo sguardo che sa riconoscere Gesù nei suoi fratelli più piccoli. Il Signore va cercato e amato nei poveri e, come cristiani, dobbiamo fare attenzione se ci allontaniamo da loro, perché c’è qualcosa che non va quando un credente tiene a distanza i prediletti di Cristo. Mentre tanti oggi li scartano, voi li abbracciate; mentre il mondo li sfrutta, voi li promuovete.”. Poi ha condiviso due interrogativi. Anzitutto: ne vale la pena? Non è sconfortante impegnarsi di fronte a innumerevoli bisogni in costante e drammatico aumento? Aiuta ricordarsi che la carità sintonizza con Dio ed Egli ci sorprende con prodigi insperati che avvengono per mezzo di chi ama. Ancora: come farlo? Quali sono i criteri da seguire per fare la carità? Servono esemplarità, lungimiranza e connessione, elementi che permettono rendere il servizio a Gesù nei poveri una testimonianza feconda, nella sinfonia di vita della grande foresta e della sua variegata vegetazione”, cioè “lavorare in rete: ciascuno con il proprio carisma ma insieme, collegati, condividendo le urgenze, le priorità, le necessità, senza chiusure e autoreferenzialità, pronti ad affiancarsi ad altre comunità cristiane e di altre religioni, e ai molti organismi umanitari presenti. Tutto per il bene dei poveri. Fare rete con tutti”.
Il 02 febbraio al mattino l’incontro del Santo Padre con i giovani e i catechisti presso “le Stade des Martyrs”. Il Pontefice ha chiesto a loro di non guardare lui, ma le proprie mani, che possono chiudersi in un pugno oppure aprirsi per essere messe a disposizione di Dio e degli altri perché “Dio ha messo nelle loro mani il dono della vita, l’avvenire della società e di questo grande Paese”. Ogni dito può essere così associato a un ingrediente per il futuro: la preghiera, una preghiera viva, che ci avvicina a Gesù e fa pulsare la vita; la comunità, che non esclude e non isola, è la via per stare bene con sé stessi, per essere fedeli alla propria chiamata. Li ha invitati a sentirsi “un’unica Chiesa, un unico Popolo” sottolineando che hanno “degli amici che dagli spalti del cielo vi sospingono verso questi traguardi…I santi. Penso ad esempio al Beato Isidoro Bakanja, alla Beata Marie-Clementine Anuarite, a San Kizito e ai suoi compagni: testimoni della fede, martiri che non hanno mai ceduto alla logica della violenza, ma hanno confessato con la vita la forza dell’amore e del perdono”; l’onestà, perché essere cristiani è testimoniare Cristo vivendo rettamente, “non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (Rm 12, 21); il perdono, che vuol dire “saper ricominciare, è rialzare chi è caduto. È accettare l’idea che nessuno è perfetto e che non solo io, ma tutti quanti, hanno il diritto di poter ripartire”; il servizio, ovvero il potere che trasforma il mondo. Infine, il Papa ha incoraggiato i giovani dicendo: “non abbiate paura di far sentire la vostra voce” perché “la Repubblica Democratica del Congo attende dalle vostre mani un futuro diverso, perché il futuro è nelle vostre mani. Il vostro Paese torni a essere, grazie a voi, un giardino fraterno, il cuore di pace e di libertà dell’Africa”.
Nel pomeriggio, prima di ricevere privatamente i membri della Compagnia di Gesù, il Pontefice ha incontrato i sacerdoti, i diaconi, i consacrati, le consacrate e i seminaristi nella cattedrale “Notre Dame du Congo”. A loro ha ricordato le parole che Dio ha pronunciato mediante il profeta Isaia: “Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (43,19). Se il Signore indica la via, i ministri ordinati e le persone consacrate sono chiamati a essere segno di questa promessa, servendo il popolo come testimoni del Suo amore”.
“Per bocca del profeta, il Signore raggiunge il suo popolo in un momento drammatico, mentre gli Israeliti sono stati deportati a Babilonia e ridotti in schiavitù. Mosso a compassione, Dio vuole consolarli. Questa parte del libro di Isaia, infatti, è conosciuta come “Libro della consolazione”, perché il Signore rivolge al suo popolo parole di speranza e promesse di salvezza. E per prima cosa ricorda il legame d’amore che lo lega al suo popolo: «Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare» (43,1-2). Così il Signore si rivela come Dio della compassione e assicura di non lasciarci mai soli, di essere sempre al nostro fianco, rifugio e forza nelle difficoltà. Dio è compassionevole. I tre nomi di Dio, i tre tratti di Dio sono misericordia, compassione e tenerezza. Perché tutti questi fanno la vicinanza di Dio: un Dio vicino, compassionevole e tenero”.
Per vivere così la propria vocazione, però, ci sono delle sfide da affrontare: la mediocrità spirituale, da vincere incontrando il Padre nella preghiera personale, “senza preghiera non si va lontano”: “La celebrazione eucaristica quotidiana è il cuore pulsante della vita sacerdotale e religiosa. La Liturgia delle Ore ci permette di pregare con la Chiesa e con regolarità…E non tralasciamo neanche la Confessione: abbiamo sempre bisogno di essere perdonati per poter donare misericordia… non possiamo limitarci alla recita rituale delle preghiere, ma occorre riservare ogni giorno un tempo intenso di preghiera, per stare cuore a cuore con il Signore: un momento prolungato di adorazione, di meditazione della Parola, il santo Rosario; un incontro intimo con Colui che amiamo sopra ogni cosa. Inoltre, quando siamo in piena attività, possiamo anche ricorrere alla preghiera del cuore, a brevi “giaculatorie” – sono un tesoro, le giaculatorie –, parole di lode, di ringraziamento e d’invocazione da ripetere al Signore ovunque ci troviamo”; la comodità mondana (specialmente in un contesto di povertà e sofferenze), che non permette di esercitare l’arte della vicinanza; la superficialità, perché il fedele attende di essere raggiunto dalla Parola di Dio pronunciata da preti e religiosi preparati e appassionati al Vangelo. Queste sfide sono da affrontare se si vuole servire il popolo come testimoni dell’amore divino, perché il servizio è efficace solo se passa attraverso la testimonianza.
Nell’ultimo giorno il 03 febbraio al mattino, prima di ripartire per il Sud Sudan il santo Padre ha incontrato i Vescovi nella Sede nella Conferenza Episcopale del Congo. “Sono contento di incontrarvi e vi ringrazio di cuore per la calorosa accoglienza…vi sono grato per come annunciate con coraggio la consolazione del Signore, camminando in mezzo al popolo, condividendone le fatiche e le speranze. È stato bello per me trascorrere questi giorni nella vostra terra, che con la sua grande foresta rappresenta il “cuore verde” dell’Africa, un polmone per il mondo intero. L’importanza di questo patrimonio ecologico ci ricorda che siamo chiamati a custodire la bellezza del creato e a difenderla dalle ferite causate dall’egoismo rapace. Ma questa immensa distesa verde che è la vostra foresta è anche un’immagine che parla alla nostra vita cristiana: come Chiesa abbiamo bisogno di respirare l’aria pura del Vangelo, di scacciare l’aria inquinata della mondanità, di custodire il cuore giovane della fede. Così immagino la Chiesa africana e così vedo questa Chiesa congolese: una Chiesa giovane, dinamica, gioiosa, animata dall’anelito missionario, dall’annuncio che Dio ci ama e che Gesù è il Signore. La vostra è una Chiesa presente nella storia concreta di questo popolo, radicata in modo capillare nella realtà, protagonista di carità; una comunità capace di attrarre e contagiare con il suo entusiasmo e perciò, proprio come le vostre foreste, con tanto “ossigeno”: grazie, perché siete un polmone che dà respiro alla Chiesa universale!
Purtroppo, so bene che la comunità cristiana di questa terra ha anche un’altra fisionomia. Il vostro volto giovane, luminoso e bello è infatti solcato dal dolore e dalla fatica, segnato a volte dalla paura e dallo scoraggiamento. È il volto di una Chiesa che soffre per il suo popolo, è un cuore in cui palpita trepidante la vita della gente con le sue gioie e le sue tribolazioni. È una Chiesa segno visibile del Cristo che, ancora oggi, viene rifiutato, condannato e disprezzato nei tanti crocifissi del mondo, e piange le nostre stesse lacrime. È una Chiesa che, come Gesù, vuole anche asciugare le lacrime del popolo, impegnandosi a prendere su di sé le ferite materiali e spirituali della gente, e facendo scorrere su di essa l’acqua viva e risanante del costato di Cristo.
Con voi, fratelli, vedo Gesù sofferente nella storia di questo popolo, popolo crocifisso popolo oppresso, sconvolto da una violenza che non risparmia, segnato dal dolore innocente, costretto a convivere con le acque torbide della corruzione e dell’ingiustizia che inquinano la società, e a patire in tanti suoi figli la povertà. Ma vedo allo stesso tempo un popolo che non ha perso la speranza, che abbraccia con entusiasmo la fede e guarda ai suoi Pastori, che sa ritornare al Signore e affidarsi alle sue mani, perché la pace a cui anela, soffocata dallo sfruttamento, da egoismi di parte, dai veleni dei conflitti e delle verità manipolate, possa finalmente giungere come un dono dall’alto.
L’annuncio del Vangelo, l’animazione della vita pastorale, la guida del popolo non possono risolversi in principi distanti dalla realtà della vita quotidiana, ma devono toccare le ferite e comunicare la vicinanza divina, perché le persone scoprano la loro dignità di figli di Dio e imparino a camminare a testa alta, senza mai abbassare il capo dinanzi alle umiliazioni e alle oppressioni. Attraverso di voi questo popolo ha la grazia di sentire rivolte a sé parole simili a quelle che il Signore consegnò a Geremia: “Sei un popolo benedetto, prima di formarti nel grembo materno ti ho pensato, conosciuto, amato”. Se coltiviamo la vicinanza con Dio, ci sentiamo spinti verso il popolo e sentiremo sempre compassione per quanti ci sono affidati. Quell’atteggiamento della compassione, che non è un sentimento, è un patire con. Rincuorati e rafforzati dal Signore, diventiamo a nostra volta strumenti di consolazione e di riconciliazione per gli altri, per sanare le piaghe di chi soffre, lenire il dolore di chi piange, risollevare i poveri, liberare le persone da tante forme di schiavitù e di oppressione. La vicinanza a Dio, cioè, rende profeti per il popolo, capaci di seminare la Parola che salva nella storia ferita della propria terra.
Siete chiamati a continuare a far sentire la vostra voce profetica, perché le coscienze si sentano interpellate e ciascuno possa diventare protagonista e responsabile di un futuro diverso. Bisogna, dunque, sradicare le piante velenose dell’odio e dell’egoismo, del rancore e della violenza; demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione; edificare una convivenza fondata sulla giustizia, sulla verità e sulla pace; e, infine, piantare semi di rinascita, perché il Congo di domani sia davvero quello che il Signore sogna: una terra benedetta e felice, mai più violentata, oppressa e insanguinata.
Facciamo però attenzione: non si tratta di un’azione politica. La profezia cristiana si incarna in tante azioni politiche e sociali, ma il compito dei Vescovi e dei Pastori in generale non è questo. È quello dell’annuncio della Parola per risvegliare le coscienze, per denunciare il male, per rincuorare coloro che sono affranti e senza speranza. “Consola, consola il mio popolo”: quel motto che torna, torna, è un invito del Signore: consolare il popolo. “Consola, consola il mio popolo”. È un annuncio fatto non solo di parole, ma di vicinanza e testimonianza: vicinanza, anzitutto, ai preti – i preti sono i primi prossimi di un vescovo –, ascolto degli operatori pastorali, incoraggiamento allo spirito sinodale per lavorare insieme. E testimonianza, perché i Pastori devono essere credibili per primi e in tutto, e in particolare nel coltivare la comunione, nella vita morale e nell’amministrazione dei beni. È essenziale, in questo senso, saper costruire armonia, senza ergersi su piedistalli, senza asprezze, ma dando il buon esempio nel sostegno e nel perdono vicendevoli, lavorando insieme, come modelli di fraternità, di pace e di semplicità evangelica. Non accada mai che, mentre il popolo soffre la fame, di voi si possa dire: “quelli non se ne curano e vanno chi al proprio campo, chi ai propri affari” (cfr Mt 22,5).
Cari fratelli Vescovi, ho condiviso con voi quello che sentivo nel cuore: coltivare la vicinanza con il Signore per essere segni profetici della sua compassione per il popolo. Vi prego di non trascurare il dialogo con Dio e di non lasciare che il fuoco della profezia sia spento da calcoli o ambiguità con il potere, e nemmeno dal quieto vivere e dall’abitudinarietà. Dinanzi al popolo che soffre e all’ingiustizia, il Vangelo chiede di alzare la voce. Quando secondo Dio alziamo la voce, rischiamo. Lo ha fatto un vostro fratello, il servo di Dio Mons. Christophe Munzihirwa, pastore coraggioso e voce profetica, che ha custodito il suo popolo offrendo la vita. Il giorno prima di morire lanciò a tutti un messaggio dicendo: «In questi giorni che cosa possiamo ancora fare? Restiamo saldi nella fedeAbbiamo fiducia che Dio non ci abbandonerà e che da qualche parte sorgerà per noi un piccolo bagliore di speranza. Dio non ci abbandonerà se noi ci impegniamo a rispettare la vita dei nostri vicini, a qualsiasi etnia essi appartengano». Il giorno dopo venne ucciso in una piazza della città, ma il suo seme, piantato in questa terra, insieme a quello di tanti altri, porterà frutto. È bene fare memoria, con gratitudine, dei grandi Pastori che hanno segnato la storia del vostro Paese e della vostra Chiesa, di chi vi ha evangelizzato e preceduto nella fede. Fratelli, sono le vostre radici, che vi irrobustiscono nell’ardore evangelico. Penso al bene che ho ricevuto conoscendo il Cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, uno dei cinque Membri del Consiglio di Cardinali per aiutare Papa Francesco nel governo della Chiesa universale e per studiare un progetto di revisione della Costituzione Apostolica Pastor bonus sulla Curia Romana, deceduto l’11 luglio 2021.
Carissimi, non abbiate timore di essere profeti di speranza per il popolo, voci concordi della consolazione del Signore, testimoni e annunciatori gioiosi del Vangelo, apostoli di giustizia, samaritani di solidarietà: testimoni di misericordia e di riconciliazione in mezzo a violenze scatenate non solo dallo sfruttamento delle risorse e da conflitti etnici e tribali, ma anche e soprattutto dalla forza oscura del maligno, nemico di Dio e dell’uomo. Però, non scoraggiatevi mai: il Crocifisso è risorto, Gesù vince, anzi ha già vinto il mondo (cfr Gv 16,33) e desidera risplendere in voi, nella vostra opera preziosa, nel vostro fecondo seme di pace! Fratelli, voglio ringraziarvi, per il vostro servizio, per il vostro zelo pastorale, per la vostra testimonianza. Il Pontefice ha concluso il suo intervento invitando i Vescovi ad essere misericordiosi, perdonando sempre, nel sacramento della Riconciliazione. E così semineranno perdono per tutta la società; ha poi chiesto di pregare per lui, perché “questo ufficio è un po’ difficile”:
Un grazie grandissimo al santo Padre per questo viaggio apostolico che è già un evento storico, un pellegrinaggio di riconciliazione e di pace, che fatto vedere alla Comunità internazionale il dramma vissuto da un popolo che lotta giorno e notte per la sua sopravvivenza, ma anche  il fatto che la Repubblica Democratica del Congo non è soltanto la guerra e la miseria ma anche e soprattutto la bellezza e la grandezza di questa terra con i suoi colori, la bellezza della vitala gioia  e la fede di una chiesa giovane che si manifesta attraverso la sua liturgia, fede, speranza e carità: “in questa terra così bella, vasta, rigogliosa, che abbraccia a nord la foresta equatoriale, al centro e verso sud altipiani e savane alberate, a est colline, montagne, vulcani e laghi, a ovest grandi acque, con il fiume Congo che incontra l’oceano. Nel vostro Paese, che è come un continente nel grande Continente africano, sembra che la terra intera respiri. Ma se la geografia di questo polmone verde è tanto ricca e variegata, la storia non è stata altrettanto generosa: tormentata dalla guerra, la Repubblica Democratica del Congo continua a patire entro i suoi confini conflitti e migrazioni forzate, e a soffrire terribili forme di sfruttamento, indegne dell’uomo e del creato. Questo Paese immenso e pieno di vita, questo diaframma d’Africa, colpito dalla violenza come da un pugno nello stomaco, sembra da tempo senza respiro”.
La visita del Papa è una grazia di Dio e un segno di speranza per tutto il popolo congolese; si spera che le sue parole non cadono nel vuoto. La gente di Goma è rimasta un po’ deluso per il dispiacere della visita non fatta all’est, è umano, capisce anche era impossibile realizzarla in questo momento tenendo conto della situazione che si vive a Goma: paura, insicurezza; nessuno avrebbe incoraggiato un rischio così maggiore. Il santo Padre stesso ha sottolineato il dispiacere di non esserci andato. Speriamo nei frutti di pace, di fraternità e di riconciliazione.
La Chiesa congolese ha sempre messo al centro della sua opera evangelizzatrice la centralità dell’amore e della riconciliazione di Gesù Cristo; l’esperienza della comunione propria della Chiesa famiglia, sorgente d’identità e servizi personali; il ruolo attivo dei laici nella vita di comunità; le liturgie festose; la vitalità delle comunità di base; l’atteggiamento di fiducia nelle difficoltà; l’annuncio e la celebrazione dei sacramenti vissuti con la gente. La situazione di guerra e violenza che dura da tanti anni ha fatto vivere nella Chiesa e tra la gente della R. D. Congo un’avventura unica di fede. Si vede e si sperimenta la presenza della tenerezza del Padre, al quale i congolesi si sono lasciati abbandonare in tanti momenti; sperimentando che è solo il Signore che interviene e salva; è Lui che si prende cura di quanti sono abbandonati da tutti. Dalla gente più in difficoltà s’impara infatti la voglia di vivere nonostante tutto; nei momenti più forti di pericolo sono i fedeli semplici e poveri a difendere gli altri mantenendo viva la Chiesa anche di fronte alla persecuzione e alle tante distruzioni. Se non ci fosse la Chiesa – sempre in prima linea per la promozione umana, in difesa e per la salvaguardia dei diritti umani e per la democrazia -non sappiamo cosa sarebbe il popolo congolese lasciato al suo destino, ma un popolo che continua a sperare ed a vivere nella certezza che la storia cammina verso il bene che è Gesù Cristo, Colui che, in croce ha sconfitto la morte e il diavolo in tutti i sensi.
Sicuro che il Signore non lo abbandona, il popolo congolese rimane fiducioso in Lui e si affida a Lui che è il Signore della storia fino al compimento del suo Regno. Ci guidino queste parole di san Giovanni Paolo II: “Abbiamo forse più che mai bisogno delle parole del Cristo risorto: “Non abbiate paura!”. Di fronte agli orrori e alle crudeltà della storia e della cronaca, l’uomo ha più bisogno che mai di quelle parole di fede e di speranza. Per ritrovare nel suo cuore la certezza che esiste Qualcuno che tiene in mano le sorti di questo mondo che passa; Qualcuno che ha le chiavi della morte e degli inferi (cfr. Ap 1,18), Qualcuno che è l’Alfa e l’Omega della storia dell’uomo (cfr. Ap 22,13), sia di quella individuale sia di quella collettiva. E questo Qualcuno è Amore (cfr. 1Gv 4, 8 e 16)”.

Don Vianney Munyaruyenzi