Basilica Metropolitana di Modena

Le tre Catechesi di Mons. Castellucci per la Quaresima 2022

Basilica Metropolitana di Modena
– Quaresima 2022 –
Giovedì 3 marzo – ore 18,30
Giovedì 17 marzo – ore 18,30
Mercoledì 30 marzo – ore 18,30

 

Giovedì 3 marzo 2022

LA RICONCILIAZIONE

 Il ciclo che inizia questa sera è stato pensato un po’ di tempo fa e si colloca in un contesto nel quale, convinti che stavamo per uscire dalla crisi, siamo esattamente entrati in un’altra crisi: la crisi della guerra. Credo sia importante collocare la riconciliazione nel contesto degli avvenimenti, perché la parola di Dio è sempre attuale e lo Spirito del Signore continua a soffiare. Quindi ci sta parlando anche ora attraverso gli eventi: conflitti, guerre, violenza, ingiustizia.

Noi cristiani non abbiamo solo le armi della ragione per potere interpretare quanto sta succedendo; abbiamo anche le armi della Rivelazione, ciò che il Signore ha detto e fatto per noi. E al centro della Rivelazione c’è un fatto che per noi è anche la lente attraverso la quale osservare la realtà: questo fatto è il mistero pasquale. Si possono fare – e si fanno in questi giorni – tante considerazioni sulla guerra; negli ultimi due anni si sono fatte tante considerazioni sulla pandemia, prima ancora tante riflessioni sulla crisi energetica, la crisi ambientale, la crisi economica… e potremmo continuare, perché andando indietro nel tempo troveremmo sempre in ogni generazione almeno una o due crisi che affliggono l’intera umanità.

Queste crisi per noi cristiani non sono solo frutto della combinazione di accadimenti casuali; è una situazione che il Signore ci invita a redimere, cioè a vivere con lo sguardo pasquale. Quando dico mistero pasquale intendo il venerdì (che inizia con il vespro del giovedì), il sabato e la domenica. Tutte e tre le giornate formano il mistero pasquale. Noi attraversiamo sempre queste tre giornate. Il venerdì è il giorno della croce, e nella croce si danno convegno tutte le atrocità umane: il tradimento e il rinnegamento della notte precedente, l’abbandono da parte delle persone care, l’odio da parte di coloro ai quali Gesù aveva fatto del bene, lo scherno da parte dei potenti e di chi lo metteva in croce, l’indifferenza da parte delle folle, la morte ingiusta e prematura. Davvero nella croce di Gesù si danno appuntamento tutte le sofferenze dell’umanità, tutte le crisi che affliggono gli esseri umani. Per questo noi cristiani possiamo dare il nome di croce al dolore e considerarlo come una tappa di quel mistero che sfocerà nella domenica, passando attraverso la piena condivisione da parte di Dio. Proprio il venerdì santo noi misuriamo l’ampiezza dell’amore di Dio, proprio il venerdì veniamo a sapere fino a che punto ci ha amato, fino a condividere tutto. Chi ama condivide. La misura dell’amore è la condivisione. E Gesù non poteva andare più in fondo di così. Non poteva abbracciare in maniera più completa la sua condizione umana.

Il sabato è il giorno del silenzio, il tempo dell’attesa, l’ingresso nelle profondità del mistero della morte. Il Signore si è fatto racchiudere tra quattro pietre perché noi verremo rinchiusi fra quattro pietre: questo è l’esito della nostra vita terrena, il tempo nel quale Gesù ha voluto condividere non solo il fenomeno della morte ma anche il senso dell’abbandono, anche la definitività della morte; è importante che sostiamo  nel sepolcro, che viviamo ciò che sta accadendo, qualsiasi crisi (anche le crisi personali, le crisi familiari, le crisi ecclesiali) cercando di non uscirne subito, in fretta, ma facendo compagnia a chi vi alloggia, condividendo e fatiche e i lutti. Spesso, quando una persona soffre, l’unico modo credibile di alleviare la sua sofferenza è la compagnia: stare vicino, passare un po’ di tempo con lei. Tante volte le parole sono banali davanti ai grandi dolori ma la compagnia, anche silenziosa, non è mai banale.

La domenica è il momento nel quale il Signore dimostra che non si fa sopraffare dalla morte. L’ultima parola è risurrezione: dentro ad ogni sofferenza umana il credente vede anche una promessa di vita; dentro ad ogni buio c’è la possibilità di un raggio di sole. Noi lo constatiamo anche in questa ultima crisi: quanta solidarietà in mezzo a tanto odio, quanta prossimità in mezzo a tanta violenza, quale compassione, quale vicinanza alle persone che stanno penando per i loro cari, che stanno soffrendo così profondamente! Noi cristiani viviamo anche il terzo giorno: la risurrezione come apporto originale alle vicende umane, anche le più faticose.

Ho introdotto il tema della riconciliazione dentro al mistero pasquale – che non è un fatto capitato unicamente a Gesù, ma è la sintesi delle vicende umane, è il perno della storia – perché è di lì che dobbiamo capire che cosa significa “riconciliazione”.  Il Signore ci ha riconciliati con Dio e tra di noi proprio attraverso la morte, la sepoltura e la resurrezione. Questo è l’itinerario della riconciliazione: un cammino che può sembrare molto ristretto – in fondo per Gesù si è trattato di poche centinaia di metri: il tratto della via crucis, la sepoltura nella tomba preparata da Nicodemo, e la resurrezione sul posto stesso – ma quei pochi metri sono anni luce dal punto di vista della sua esistenza.

L’itinerario della riconciliazione spesso è lungo e faticoso. Quando una persona riceve un’offesa, sa bene che quanto più questa offesa è intensa, quanto più la ferita è profonda, tanto più occorrerà tempo per integrarla… se mai avverrà. Il Signore annulla questo tempo, per quanto lo riguarda: lui non vive il tempo del risentimento nel suo cuore, lui non mantiene il proposito della vendetta dentro di sé, lui è libero da quei sentimenti da cui noi invece siano avvolti e che a volte ci conquistano quando riceviamo offese e ci riteniamo feriti. E allora coma fa a dire che noi dobbiamo perdonare come fa lui?

Quando recitiamo il Padre Nostro – forse a volte un po’ distrattamente – diciamo esattamente questo: rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Così però ci esponiamo molto: stiamo dicendo a Dio che noi ci vogliamo mettere in gioco quando ci sentiamo creditori verso gli altri, vogliamo rimettere questi debiti, cioè perdonare: e tu perdona a noi nella stessa misura. A volte, tra me e me dico: spero che il Signore non ascolti troppo questa indicazione. Lui in realtà la ascolta alla sua maniera, perché tutta la Scrittura dalla prima all’ultima pagina è una storia di peccato e di perdono insieme, dove il Signore ci dimostra che non si tratta di due pesi uguali sulla sua bilancia, come se fosse occhio per occhio e dente per dente, ma si tratta di una sproporzione enorme: il suo perdono è immensamente più grande del nostro peccato. L’itinerario, il cammino sta proprio qui: non un cammino faticoso per doverci conquistare il perdono di Dio (questo lui ce lo dà subito) ma un cammino per poterci adeguare a quel che abbiamo ricevuto. E la differenza è molto grande; Papa Francesco insiste spesso su questo: Dio ci perdona sempre, ma siamo noi che alle volte chiudiamo la porta al suo perdono. La differenza è la stessa che passa tra la mentalità dei farisei e il messaggio di Gesù. I farisei pensavano che Dio si conquistasse a forza di atti di volontà, di osservanza di regole, di atti di purificazione; Gesù dice che Dio è già conquistato, che Dio ama a prescindere: si tratta solo di aprirgli la porta. L’itinerario della riconciliazione, dunque, non è un lungo e faticoso viaggio nel quale dobbiamo compiere sforzi enormi per riconquistarci l’amicizia di Dio (sarebbe volontarismo), l’itinerario della riconciliazione è quello che Dio compie verso di noi bussando alla nostra porta: è semplicemente aprirgli la porta del cuore. Questo ci rende anche molto più sereni di fronte al peccato, non per favorirne la commissione, ma semplicemente perché ogni peccato deve diventare una occasione di maggiore umiltà.

Come apriamo questo catenaccio – nei fatti – al Signore che bussa? L’apriamo attraverso l’umiltà. L’umiltà è tra le virtù quella più necessaria di tutte: è la porta di tutte le virtù. Un prete santo, Giovanni Maria Vianney (il Curato d’Ars) vissuto più di due secoli fa, in un’omelia disse che tutti i doni che noi abbiamo (le virtù, appunto), sia le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità, sia le virtù umane o cardinali, prudenza, mitezza, giustizia, fortezza, temperanza, sono come perle preziose. L’umiltà non è una delle perle, ma è il filo che le trasforma in una collana, senza il quale rotolano via.

L’umiltà è il catenaccio che apre la porta, quando Dio bussa al cuore. Ogni volta che noi ci rendiamo conto di esserci allontanati da lui, di averlo tradito, rinnegato,   schernito, ignorato, offeso in qualche modo, occorre che facciamo di questa offesa occasione di maggiore umiltà, che apriamo le braccia verso di lui, che abbiamo il coraggio di dirgli: da solo non ce la faccio. Un autore spirituale afferma che la tentazione più grande non è quella che precede il peccato, ma quella che lo segue. Certo noi diciamo: non abbandonarci alla tentazione e diciamo di impegnarci per evitare le occasioni prossime di peccato: questo è importante. Ma la tentazione più grande arriva dopo: è la tentazione di lasciare perdere tutto. E’ la tentazione di Giuda:  pensare che l’amore di Dio sia più piccolo del peccato, disperare della misericordia di Dio.

C’è dunque uno sbilancio notevole tra la sua misericordia e il nostro peccato; per questo il senso di colpa non va coltivato ed è cosa ben diversa dal senso del peccato. Il senso di colpa è una grandezza psicologica importante, è un segnale di allarme che indica la distanza tra il nostro ideale e il nostro comportamento … e guai se non avessimo questo segnale. Probabilmente alcuni criminali non ce l’hanno più.  Ma questo segnale, come ogni allarme, ad un certo punto va spento. Perché come cristiani – ed è profondamente liberante – dobbiamo lasciare lo spazio al senso del peccato, che è la spinta per chiedere perdono e quindi è la porta che si apre alla misericordia di Dio. Se il senso di colpa squillasse continuamente, noi saremmo preda della nostra disperazione. Giuda si è fatto sopraffare dal senso di colpa e ha considerato l’amore di Gesù più piccolo del suo peccato; Pietro invece si è lasciato conquistare dal senso del peccato e ha considerato l’amore di Gesù più grande della sua colpa. La confessione non è una sorta di inquisizione della coscienza, ma un atto di umiltà che apre le porte alla misericordia di Dio, permettendo di passare dal senso di colpa al senso del peccato e quindi di fare spazio all’amore di Dio.

Credo che tutto questo abbia a che fare con la guerra, non nel senso esteriore naturalmente, ma nel senso che la radice di ogni guerra si trova nel cuore dell’uomo; la radice di ogni guerra è una volontà di potenza che dimentica come il Signore ci venga a cercare e bussi al nostro cuore, è una esaltazione dell’io che vorrebbe invadere il tu e che rinnega completamente la vocazione dell’uomo: aprirsi alla grazia. E’ nel nostro cuore che nascono le guerre e che poi diventano conflitti interpersonali, familiari, sociali, ecclesiali, politici, mondiali. Le guerre sono sempre l’espansione della volontà di potenza di qualcuno che travalica i confini e quasi si mette al posto di Dio, si ritiene il centro di tutto, non capisce più che è piccolo e così sbarra le porte al Signore che bussa: può succedere ai potenti – come vediamo in questi giorni – ma può succedere a ciascuno di noi.


Giovedì 17 marzo 2022

LA RICONCILIAZIONE CON DIO

 Lastra della facciata della Cattedrale – Wiligelmo – Genesi, Caino e Abele

Prendo spunto da una delle lastre di Wiligelmo perché l’episodio di Caino e Abele non è pensato nella Bibbia come un resoconto storico, ma come una grande e drammatica parabola di ciò che accade sempre, fin dai tempi – noi diciamo appunto in modo quasi proverbiale “dai tempi di Caino e Abele”, cioè “da sempre” – quando l’essere umano fa prevalere l’invidia, l’orgoglio, l’affermazione di sé: questa è la scena che lo riguarda, che ci riguarda.

C’è un avvio molto sereno, liturgico. Nella prima scena di sinistra si intravvede Dio in trono tra Abele (alla  sinistra) e Caino (alla destra): Abele offre l’agnello e Caino un fascio di spighe.

Sappiamo poi che nella parabola, al IV capitolo della Genesi, Dio gradisce il dono di Abele ma non quello di Caino. Il motivo non viene spiegato: probabilmente c’è una dissonan-

Particolare: l’offerta al Signore di Abele (a sinistra) e di Caino (a destra)

za rispetto al cuore di Caino. I profeti di Israele diranno che Dio non gradisce le offerte senza giustizia, anzi che un’offerta gradita a Dio è un cuore pieno di giustizia e di misericordia. Evidentemente Caino non ha il cuore misericordioso e la sua offerta non corrisponde al suo cuore.

Nella scena di mezzo c’è l’episodio dell’uccisione di Abele da parte di Caino: Caino è in piedi, ormai il fascio di spighe è diventato un bastone e colpisce sulla testa il fratello Abele che sta cadendo al suolo. Le spighe diventano un bastone, quelle che dovevano essere segni della sua offerta a Dio in realtà ora rivelano la loro natura: sono moti dell’animo, moti di odio, di rivalità, e questa scena – è inutile dirlo – è drammaticamente attuale: accade continuamente nella storia; in questi giorni lo vediamo addirittura in modo insistente attraverso la guerra in atto. Quando l’essere umano fa prevalere il proprio orgoglio, la propria prepotenza, qualche bastone si cala sempre sulla testa degli innocenti.

C’è poi una scena che si vede sulla destra, ed è l’ultima scena di questa lastra: Caino è di nuovo in piedi, rivestito di un manto, alla nostra destra c’è Dio che – ci aspetteremmo gli desse una bastonata, invece no – gli mette una mano sulla spalla. E’ quasi scandaloso questo comportamento: noi vorremmo un Dio che si vendica, che distrugge gli orgogliosi, che annienta coloro che odiano, invece – dice il testo della Genesi – il Signore dopo avere sgridato fortemente Caino gli pose un segno perché lui non venisse ucciso. Non sappiamo cosa sia questo segno e Wiligelmo lo interpreta come un manto protettivo; certamente questa scena finisce in un modo veramente stupefacente, che anticipa già la parabola del Padre misericordioso: Dio condanna il gesto di Caino ma non condanna la persona di Caino.

In questa distinzione c’è già il tratto cristiano che Gesù porterà a proposito del peccato e del peccatore. Il peccato viene condannato senza mezzi termini e non possiamo scambiare il bene con il male, chiamare bene il male e male il bene. Quando un comportamento non è conforme alla legge di Dio, viola la legge di natura, certamente è un comportamento sbagliato: è male. Ma la persona non può essere giudicata da noi. Chi ha compiuto il male noi lo chiamiamo “malvagio”, ossia colui che genera il male, ma non si identifica mai con il proprio gesto. Lo spazio del perdono è proprio la distanza che c’è tra l’atto e la persona. L’atto può essere buono o cattivo, la persona la giudica solo Dio, è sempre più grande del suo peccato; lo spazio del perdono è necessario per poter costruire delle relazioni che siano umane. Se Dio si prestasse alla logica della vendetta succederebbe come succede spesso tra di noi: che la vendetta porta a una crescita continua della violenza e dell’odio e diventa difficilissimo fermarlo; travolge tante persone e spesso – quasi sempre – anche le persone innocenti, che non hanno commesso atti sbagliati. Con questo gesto, dunque, la mano sulla spalla, il manto che protegge la persona di Caino, l’artista fa capire che anche il peccatore ha una dignità, mantiene la dignità di essere umano.

Questa sequenza, che rispecchia esattamente la Genesi e che è immortalata sulla facciata del nostro Duomo, credo che fotografi molto bene l’argomento di stasera: La riconciliazione con Dio. Non è la riconciliazione di Dio con noi, ma è la nostra riconciliazione con lui, perché lui da parte sua stende sempre il manto protettivo attorno al nostro corpo; lui da parte sua ha sempre la disponibilità al perdono. Noi non abbiamo sempre la disponibilità a lasciarci perdonare, noi qualche volta non ci lasciamo raggiungere dalla mano di Dio, non lasciamo che lui appoggi la mano sulla nostra spalla, ci sentiamo addirittura a volte orgogliosi del nostro errore e lo sbandieriamo come fosse la verità. Questo atteggiamento si chiama “orgoglio” ed è l’unico che può fermare il perdono di Dio: l’orgoglio impedisce al Signore di entrare nel nostro intimo.

Se noi ripercorriamo le decine di incontri che Gesù ha nei Vangeli – ce ne sono davvero tanti di incontri: incontri con le folle, con i malati, con i peccatori, con i discepoli, con i propri familiari… i quattro Vangeli sono intrecci di incontri – ci rendiamo conto che Gesù ha la capacità di raggiungere l’interiorità di ciascuno, di varcare anche le soglie che sembrano più rigide e invalicabili. Gesù ha la capacità di entrare nel cuore degli ammalati, che erano discriminati nella società del tempo, perché la malattia era considerata una punizione divina; ha la capacità persino di risuscitare dei morti, ha la capacità di convertire dei peccatori, le persone che tutti evitavano e che lui non solo incontra, ma incontra intimamente… c’è solo un atteggiamento che lo ferma: l’orgoglio. L’orgoglio di chi si sente a posto, di chi fa della propria superbia il baluardo della sua vita, di chi gli oppone una religione fatta di certezze immediate. Ricordiamo la parabola del pubblicano e del fariseo, narrata nel vangelo di Luca, dove il fariseo sta in piedi e prega il Signore proprio con una orazione di tipo comparativo: “ti ringrazio Signore che non sono come quel pubblicano: io pago le decime, osservo le leggi”… Il pubblicano, cioè il peccatore pubblico, riconosciuto come tale, che sta prostrato in fondo e dice semplicemente: “Abbi pietà di me”. Gesù chiede: chi pensate che sia giustificato? E’ giustificato il pubblicano. Perché il fariseo, pur essendo migliore dal punto di vista morale, ha eretto la parete che si chiama orgoglio: Io sono a posto. E quindi, paradossalmente, colui che per i suoi concittadini, correligionari, non era peccatore, il fariseo, diventa irraggiungibile dalla misericordia di Dio. Il Signore non può entrare davanti a questo muro, perché rispetta la libertà umana. Certo non cesserà mai di bussare, di tentare di scavalcare, forse troverà il modo di arrivare, ma questo è l’unico vero ostacolo a Dio: il nostro orgoglio. Allora non dobbiamo immaginare la riconciliazione con Dio come il nostro tentativo, attraverso chissà quali sforzi, di conquistarlo o di riconquistarlo. Caino non fa nessun tentativo, semplicemente si lascia avvolgere da questo manto. Questo sarebbe un puro movimento religioso: noi che tentiamo di legare Dio; la parola “religione” secondo molti significa “legare”, tentare di avvolgere Dio con le nostre pretese, i nostri meriti, le nostre richieste. Qui è proprio l’inverso: è Dio che ci avvolge.

Il movimento del perdono parte da Dio verso di noi, e questo è il movimento della fede, dell’accoglienza di Dio che cerca di entrare nel nostro cuore. Lo accennavo anche la volta scorsa: noi non dobbiamo immaginare di doverci riconquistare la fiducia di Dio dopo il peccato, dobbiamo semplicemente aprire la porta: e il contrario dell’orgoglio è l’umiltà. Chi apre la porta sa che deve accogliere la grazia di Dio, che da solo non può fare nulla; ma è veramente difficile.

Nei rapporti tra di noi, infatti, è praticamente impossibile essere umili, cioè aprire la porta all’altro, riconoscere di avere sbagliato, dare spazio anche all’opinione e all’esperienza dell’altro; è molto più facile cercare di convincere gli altri, di imporre la nostra idea, la nostra esperienza… e questo atteggiamento noi lo trasportiamo anche nel rapporto con Dio, persino nella preghiera. Ci sono delle preghiere che sembrano una mappa che noi scriviamo per dire a Dio cosa deve fare e gli diamo anche tutti i dettami; e invece c’è la preghiera che Gesù ci consiglia, dove noi semplicemente imploriamo: la preghiera non è un puntare il dito verso Dio e pretendere che quello che noi abbiamo deciso sia utile. La preghiera è allargare le braccia a Dio e accogliere quello che lui sa più utile per noi.

La riconciliazione è la pace del cuore. Noi abbiamo un gran bisogno di pace, non solo tra le nazioni, non solo nella società, non solo nelle nostre relazioni immediate (la famiglia, il lavoro, la scuola, gli amici): ne abbiamo bisogno nel nostro cuore, perché spesso la radice del conflitto si gioca qui dentro, si gioca tra i nostri sentimenti, la nostra volontà, la nostra intelligenza. Tante volte queste dimensioni della personalità sono in conflitto tra di loro, e questa è la radice di ogni peccato, di ogni guerra: una lotta tra ciò che vorrei e ciò che sono, tra ciò che il mio istinto mi chiede e ciò che so essere buono. Anche san Paolo ha vissuto questa guerra interiore e lo dice nella lettera ai Romani: tante volte mi rendo conto che io faccio ciò che non vorrei e non faccio ciò che vorrei; perché noi siamo anche la nostra esperienza, un groviglio di situazioni positive e negative: ecco perché la riconciliazione con Dio è il centro di ogni riconciliazione e di ogni relazione riconciliata.

Quando una persona si sente avvolta dal manto di Dio – fosse pure Caino – e accetta che il Signore gli appoggi la mano sulla spalla – fosse anche il più grande peccatore – quella persona ha scoperto il segreto della pace, della pace del cuore. Quando invece uno pensa di essere a posto e non ha l’umiltà di chiedere perdono, anche se mostra sicurezza e ostenta solidità, come fanno le persone potenti, in realtà ha la guerra nel cuore.

E noi non possiamo puntare il dito sugli altri: ce lo dimostrano tante storie di santi. San Francesco una volta si lamentava tra sé e sé di essere un grande peccatore e uno dei frati che lo sentì lo rimproverò benevolmente dicendogli: “Padre Francesco, tu sai che non è vero!” e lui disse: “Se un brigante avesse avuto i doni che ho io, sarebbe molto più santo di me”. In un certo senso san Francesco adotta la comparazione, ma al rovescio del fariseo e del pubblicano. Il fariseo l’adotta nei confronti del pubblicano per rilevare la propria superiorità; Francesco dice: io non posso giudicare gli altri: devo guardare dentro di me, perché i doni che Dio mi ha dato sarebbero così grandi che dovrei essere molto più avanti nella via della santità. E papa Francesco dice spesso che forse se lui fosse nato in certe zone, in certi sobborghi di Buenos Aires, e non avesse avuto una nonna come quella che ha avuto, sarebbe finito in prigione; per dire che, le situazioni ci condizionano. Non dobbiamo mai giudicare gli altri, perché solo il Signore conosce il cuore, è lui che può trovare sempre la porta della riconciliazione.

Ma c’è di più: noi non possiamo neanche giudicare noi stessi. Io non so quanto sono santo e quanto sono peccatore: ci sono degli atti che sembrerebbero rivelarmi di essere un grande peccatore, altri, invece, dove scopro di compiere dei gesti buoni di cui non sapevo nemmeno di essere capace; perché noi non smettiamo mai di conoscere il nostro animo. Sant’Agostino lo aveva detto: “Signore, tu sei più intimo a noi di noi stessi”. Tu sei più intimo a me di me stesso, solo tu conosci tutte le zone del mio animo: noi ci dimentichiamo, noi censuriamo, noi nascondiamo tante cose, noi immagazziniamo esperienze di cui non ci ricordiamo più, siamo fatti di tanti piani, e dunque a volte ci stupiamo di noi stessi, del bene e del male delle nostre azioni: solo Dio conosce tutto, solo lui può esplorare il nostro cuore e trovare lo spazio per la riconciliazione; del resto, anche San Giovanni nella sua prima lettera ci invita a non autogiudicarci. Dice: “Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”. E questo ci riconcilia con noi stessi, ma non perché giustifichiamo i peccati, ma perché ci rendiamo conto di essere molto limitati in qualsiasi tipo di giudizio.

L’atteggiamento più liberante è proprio questo: è l’affidarci al Signore quando vediamo il male in noi stessi, è l’affidare i fratelli e le sorelle di cui vediamo il male, naturalmente intervenendo quando ci viene richiesto e permesso perché – ne parlerò la prossima volta nella parte della riconciliazione con la Chiesa – il processo della riconciliazione non è un processo puramente individuale verticale tra me e Dio ma coinvolge anche la comunità. Però la condizione fondamentale per potere vivere questo processo della riconciliazione con Dio è proprio quello di sentirsi invasi dalla sua misericordia.


Mercoledì 30 marzo 2022

LA RICONCILIAZIONE CON LA CHIESA

Siamo arrivati alla terza e ultima tappa di questo breve percorso, che ci prepara al sacramento della riconciliazione ma anche alla Pasqua. Faccio riferimento anche oggi ad alcune immagini della nostra Cattedrale, perché qui ci sono tanti contenuti della vita cristiana: in particolare il tema del perdono, della riconciliazione. E prendo ancora come riferimento le due figure di Giuda e di Pietro che sono rappresentate, come già accennai la prima volta, qui nelle colonne sotto al pontile per entrare in cripta, e che sono raffigurati come due traditori: più propria-mente noi chiamiamo: la consegna di Giuda tradimento e il peccato di Pietro rinnegamento, ma sono due tradimenti. Giuda e Pietro hanno tradito l’amico.

 Il tradimento di Giuda

Il tradimento di Giuda è raffigurato qui con la sua mano tesa a raccogliere i trenta denari. Giuda ha tradito per trenta denari, e quindi sembra che il motivo sia stato un motivo di interesse economico, di lucro. Ma se guardiamo più attentamente i Vangeli, c’è un altro motivo più profondo, e anche questo credo che faccia parte delle nostre debolezze umane: Giuda ha tradito perché si è sentito tradito, tradito perché profondamente deluso da Gesù. Giuda aspettava come altri, come la maggior parte delle persone al suo tempo, che Gesù venisse con la spada in mano, che fosse un liberatore militarizzato, che convocasse un gruppo di persone che si potessero ribellare al potere dei romani. Invece Gesù sempre più chiaramente manifestava un’altra strada, un altro modo di essere “liberatore”. Giuda pretendeva da lui la liberazione dai romani, Gesù predicava la liberazione dai peccati, che è un’operazione molto più profonda, ma che a Giuda evidentemente è apparso un tradimento.

Dunque, in quello che noi chiamiamo globalmente il tradimento di Giuda certamente c’è anche un motivo di interesse (trenta denari) ma c’è soprattutto una relazione ferita, un’attesa che è stata tradite, secondo lui. Il bello è che Giuda pochi giorni prima aveva rimproverato Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro, perché aveva sprecato un olio profumato versandolo sui piedi di Gesù e lui aveva prezzato quell’olio: “se ne potevano ricavare trecento denari e darli ai poveri”; e Giovanni, che racconta l’episodio, commenta che Giuda disse così non perché gli interessasse dei poveri, ma perché teneva la cassa ed era ladro. Dunque, Giuda si era lamentato perché Maria aveva valutato Gesù trecento denari, aveva ritenuto che Gesù valesse quei trecento denari, e lui per un decimo di quella cifra lo tradisce.

In parallelo, sotto, c’è la scena del rinnegamento di Pietro. Di nuovo tre personaggi: questa volta al centro non c’è un essere umano ma un gallo, che rivela la falsità di Pietro, il quale è a sinistra piegato in avanti, mentre si scalda in un gesto nel quale sembra volere nascondere la faccia per non farsi riconoscere, ma sappiamo dai Vangeli che la pronuncia lo ha tradito: hanno capito che era un galileo e che era uno dei suoi, davanti alla serva che dice: “Anche tu eri uno di loro!”. E Pietro dice di no.

Il rinnegamento di Pietro

Se noi adesso guardiamo il pontile qui di fronte, questa stupenda opera dei maestri campionesi, incontriamo l’ultima cena: a destra come ci viene raccontata da Matteo, Marco e Luca e a sinistra, in una scena molto più stretta, come ci viene raccontata da Giovanni. Perché mentre Matteo, Marco e Luca riportano proprio la scena della cena: Gesù prese il pane, lo spezzò, rese grazie, lo diede ai discepoli, prese il calice, Giovanni non riporta queste parole di Gesù – le aveva già riportate lungamente nel discorso di Cafarnao – ma coglie piuttosto un altro gesto: la cosiddetta lavanda dei piedi a Pietro e agli apostoli. Il senso non è diverso perché il dono del pane e del vino significa che Gesù dà la propria vita: potremmo quasi dire che si sbriciola, si versa: infatti dice “questo è il mio corpo che è dato per voi, mangiatelo; questo è il mio sangue versato per voi, bevetelo”.

E la scena della lavanda dei piedi significa che Gesù si abbassa e dà la propria vita; ha lo stesso significato sotto la forma del sacramento dell’Euca-restia e sotto la forma del servizio.

Come se Gesù fosse l’ultimo schiavo di casa, quello che avendo cominciato appena la sua carriera di schiavo e che doveva, tra gli altri lavori, lavare i piedi agli ospiti e ai padroni di casa.

Ultima Cena: Gesù dà il pane a Giuda

Perché ho scelto questi particolari? E’ evidente: perché nella scena superiore – e questo è l’episodio rappresentato poche volte nel mondo – Gesù dà il pane proprio a Giuda. Si vede Giuda che apre la bocca e Gesù che mette il pane nella sua bocca. Questa scena non è raccontata come tale nei Vangeli, dove si dice solo che quando chiedono “chi è che ti tradirà?” Gesù dice: “Colui che ha intinto con me”. Qui però questa rappresentazione è del XIII secolo e già si usava prendere anche la comunione sulla bocca: gli artisti hanno voluto rappresentare proprio questa risposta di Gesù al tradimento di Giuda: tu mi tradisci e io in cambio ti dono me stesso. E’ la scena del perdono.

Non sappiamo come Giuda potesse prendere questo gesto di Gesù, certamente avrà destato ulteriormente un senso di contrasto tra quello che c’era nel

Gesù lava i piedi a Pietro

suo cuore e quello che stava succedendo, però questo dimostra che da parte di Dio il perdono c’è: il Signore vuole comunque donare se stesso. E la stessa cosa nella scena a sinistra, quando Gesù lava i piedi a Pietro: Giovanni riporta il famoso dialogo: “Tu non mi laverai mai i piedi”; e Gesù dice: “allora non avrai parte con me”, “Signore non solo i piedi, anche la testa…”. Cioè, Pietro non accetta che Gesù si abbassi così tanto, eppure questa è la risposta al Pietro che si vergogna di lui: Gesù sta dicendo a Pietro Tu ti vergogni di me? Tu stai per rinnegarmi?: e io come risposta mi pongo al tuo servizio, do la mia vita per te, mi abbasso fino ai tuoi piedi. Questa è la vendetta del Signore: il perdono. Davanti ai nostri peccati che sono sempre simboleggiati o da Giuda o da Pietro – cioè sono dei gesti di tradimento e di rinnegamento – la risposta del Signore è sempre l’offerta di sé. Sempre il perdono.

Però c’è una specie di contrasto tra il peccato e il perdono. Il peccato – potremmo dire – è privato. Qui Giuda non ha attorno gli apostoli, va da solo dal Sinedrio a trattare la vendita di Gesù, Pietro non ha attorno nessuno degli apostoli, è da solo a scaldarsi nel cortile con la serva di fronte; il peccato – potremmo dire – è fatto da soli. Invece il perdono è davanti a tutti. Gesù cena con Giuda e intinge il pane con lui davanti agli altri apostoli; Gesù lava i piedi a Pietro davanti agli altri apostoli. Perché in realtà nessun peccato è privato: è questo il motivo per cui nella confessione abbiamo bisogno anche del perdono della Chiesa, è il motivo per cui c’è bisogno della mediazione della Chiesa. Non posso auto-assolvermi. Anche il Papa ha bisogno di confessarsi da un ministro della Chiesa; perché il peccato potrebbe essere commesso anche segretamente come tentano di fare Giuda e Pietro: potrei peccare col pensiero, con le parole, con le opere, da solo, nella mia stanza, ma il peccato è sempre anche un’offesa arrecata al corpo di Cristo che è la Chiesa, perché quel bene che io dovrei portare io lo tramuto invece in un male, nessuno di noi è solo davanti a Dio, ma siamo inseriti nel suo corpo e quindi ciò che un membro compie di bene o di male si ripercuote in tutto il corpo: non ovviamente in quanto a responsabilità ma quanto alle conseguenze.

Del resto ce ne rendiamo conto anche nella nostra vita familiare, sociale… quando qualcuno si comporta male la responsabilità è sua, ma le conseguenze sono di tutti. Se io arreco un qualsiasi danno a me stesso o agli altri la conseguenza ricade su tutti, anche se lo arreco solo a me, perché poi impongo agli altri di venirmi in soccorso e riparare il danno che ho fatto. E questo vale tanto più nella Chiesa, che è corpo fatto da tante membra tutte legate assieme; quindi la santità che io inietto in questo corpo va a vantaggio di tutti, ma anche il peccato che io compio, gli atti di egoismo, di superbia, di violenza vanno a danno di tutti. Ecco perché, anche se il peccato può essere privato, il perdono è sempre ecclesiale.

Ogni volta che mi confesso io ricevo il perdono anche dalla Chiesa: certo è importante che la confessione avvenga con un ministro anche per il fatto che il ministro è “medico”, e un medico deve conoscere la malattia per poter dare la medicina adeguata, altrimenti si dà un farmaco generico che potrebbe non riguardare né il sintomo né le cause della malattia; e dunque, come quando ho qualche malanno vado dal medico e glielo espongo – e glielo espongo per metterlo nella situazione di potermi dare la cura – così quando mi confesso ho bisogno di una persona a cui esporre il problema per avere la cura. Ma non c’è solo questo.

C’è questo motivo profondo; il Concilio Vaticano II dice che è necessaria la assoluzione anche da parte della Chiesa perché ogni peccato non è solo un’offesa a Dio ma è fatta anche alla Chiesa; io impoverisco la Chiesa, e ho bisogno anche del suo perdono. E dunque, nel sacramento della riconciliazione, proprio nel momento della assoluzione, è Cristo e la Chiesa insieme che mi perdonano. E come dice papa Francesco, questo perdono c’è sempre se io lo accetto, se io mi metto nella condizione di accoglierlo.

Gesù, potremmo dire, mette di forza il pane in bocca a Giuda, quasi per dire “Io voglio perdonarti, voglio che tu riceva il dono che sono io stesso” e Gesù quasi per forza lava i piedi a Pietro, insiste: “Ti devo lavare i piedi”, cioè: tu devi accettare che io mi abbassi fino a te. Dunque, da parte del Signore e della Chiesa, il perdono è offerto sempre, però – aggiunge papa Francesco e lo ha detto anche domenica all’Angelus – siamo noi che a volte chiudiamo la porta al perdono, perché non ci poniamo nelle condizioni di accoglierlo perché manteniamo chiuse le porte del cuore e anche a volte – lo accennavo già – perché ci giudichiamo pesantemente. Qualche volta il giudice più severo di me sono me stesso. Il Signore dice: “No, solo io so cosa c’è nel tuo cuore”.

Facevo già notare nel primo incontro che la differenza dell’esito di Pietro e di Giuda non è data dall’entità del peccato, ma è data dal fatto che Giuda finisce per ritenere il suo peccato più grande dell’amore di Gesù, mentre Pietro capisce che l’amore di Gesù è più grande del suo peccato. Ci sarà per entrambi un incontro con lo sguardo di Gesù, ma avrà un esito molto diverso per questo motivo. Giuda, di lì a poco, incontrerà lo sguardo di Gesù nel famoso bacio, che è rappresentato sulla destra del pontile; il bacio di Giuda è anche un incontro di sguardi e di parole: “Giuda, con un bacio tradisci il tuo maestro?”: però quello sguardo non ha prodotto nulla in Giuda, se non forse un senso di disperazione che lo ha portato al suicidio. Anche Pietro incrocerà lo sguardo di Gesù, perché dopo il canto del gallo Gesù passerà dal cortile; dice il Vangelo di Luca: “si voltò, lo guardò e Pietro uscì e pianse amaramente”. Nel caso di Pietro l’incontro con lo sguardo di Gesù ha prodotto non la disperazione ma la conversione, il pentimento, perché Pietro ha avuto l’umiltà di riconoscere che l’amore di Gesù era più grande del suo peccato.

Questi sono i due atteggiamenti che potremmo assumere anche noi davanti all’offerta di perdono di Gesù: o pensare che non serve, non è utile, tanto io sono fatto così e non cambierò mai, perché il mio peccato è troppo grande; oppure pensare: il Signore mi ridà fiducia, devo ricominciare, devo ripartire con l’aiuto della Chiesa; è per questo che la riconciliazione sia come sacramento sia come processo, comporta la partecipazione di tutta la Chiesa, non solo nel momento della assoluzione ma nell’esperienza della vita comunitaria. Quando noi all’inizio della Messa diciamo il Confesso, o una preghiera simile, avrete notato che diciamo: “Confesso a Dio onnipotente” (perché il peccato è prima di tutto una offesa fatta a Dio) e poi diciamo anche “e a voi fratelli e sorelle che ho molto peccato”, e quindi chiediamo l’aiuto di tutta la comunità cristiana. E la vita della comunità, la vita liturgica, l’evangelizzazione, la vita di carità è un accompagnamento indispensabile alla conversione.