Rovereto, catechesi di mons. Castellucci

8 marzo 2023 – Rovereto s/S

Proporrò una riflessione che vorrei fosse gioiosa perché dobbiamo evitare di identificare il cammino quaresimale con la tristezza: vorrei farlo prendendo spunto dalla pagina che ci introduce alla Quaresima e che ci dà anche il senso delle nostre relazioni: il brano che abbiamo letto due domenica fa, quello delle tentazioni di Gesù (Mt 4,1-11, ndr).

Perché dovrebbe essere gioioso, un cammino che inizia nel deserto, in compagnia del diavolo, e con le tentazioni? Perché il brano delle tentazioni prima di tutto ci dice che siamo liberi e che abbiamo la libertà di scegliere. E’ ciò che distingue gli esseri umani dalle altre forme di vita: gli animali – per esempio – hanno una memoria, un’affettività (ed è molto bello questo) però sembra che non siano creativi e che non abbiano la possibilità di esprimere liberamente scelte diverse dai loro istinti; non hanno evidentemente la possibilità di diventare artisti o scienziati. Noi umani – almeno finora – siamo gli esseri che vivono anche di scelte nuove. Non siamo liberi in senso completo: nessuno di noi ha scelto, per esempio, di venire al mondo (che è la scelta fondamentale della vita) infatti noi ci siamo trovati al mondo; tante volte, poi, ci sentiamo condizionati nelle nostre decisioni, viviamo una serie di condizionamenti che dobbiamo riconoscere, perché siamo corporei; siamo dentro ad un tempo preciso (non viviamo nel ‘700 e nemmeno nel 2300), siamo dentro ad un contesto, ad uno spazio (viviamo qui, non in Africa né in America), siamo dentro ad una famiglia, abbiamo ricevuto una certa educazione… perciò siamo “legati”; tuttavia, dentro questi legami è possibile fare delle scelte.

Le tentazioni di Gesù ci dicono proprio questo: noi dobbiamo scegliere. E’ interessante che il diavolo tenti Gesù sui tre legami che sono le tre relazioni fondamentali che noi viviamo: la relazione con Dio, la relazione con gli altri, la relazione coi beni. Per il credente la relazione con Dio è quella primaria: chi non crede ha comunque dentro di sé la domanda sul senso della vita e della morte, quindi una domanda religiosa è presente in tutti (che questa poi si esprima in una fede esplicita oppure in una forma di ricerca continua, dipende dalle situazioni).  Il rapporto con gli altri: nessuno di noi è un’isola, viviamo con dei “ponti”, perché dipendiamo da altri (tutti infatti abbiamo avuto due genitori, certamente abbiamo parenti e amici, e relazioni). Poi, la relazione coi beni, con le cose create: noi non siamo un’altra cosa rispetto al resto della natura (da questo punto di vista, se noi ci scomponiamo, arriviamo addirittura a delle molecole, a degli atomi, a delle particelle che sono uguali a quelle di tutto il resto del creato); il nostro corpo è un “pezzo” di mondo che ci appartiene, poi noi ci vestiamo, mangiamo… insomma siamo un tutt’uno con le cose.

Le tentazioni del diavolo sono appunto su questi tre aspetti, poiché vanno a colpire Gesù nella sua relazione con Dio, con gli altri, con le cose. Il diavolo, poi, che è evidentemente furbo, comincia a rovescio, cioè dalla tentazione più facile, cioè quella delle cose: “Si accostò a Gesù e gli disse: ‘se sei figlio di Dio, di’ che questi sassi diventino pane’”, cioè: se hai questi “superpoteri” allora puoi trasformare le cose in modo da guadagnarci, perché un sasso non si vende, ma un pane sì; puoi allora diventare ricco, farti un nome attraverso i beni. E Gesù dice “non di solo pane vive l’uomo”: cioè rifiuta questa logica dei beni come strumento per farsi strada. Questo ci pone una prima domanda: che rapporto abbiamo con i beni? Per beni si intendono le cose, il denaro, le risorse, ma anche il tempo, gli affetti… Di solito si dice che quando vuoi conoscere bene una persona la devi toccare sul portafoglio. Questo perché i beni sono quasi un prolungamento del nostro desiderio di vita. Sono molto utili come servitori, ma terribili come padroni. Ad esempio, del denaro come strumento di servizio nessuno può fare a meno, ma se questo diventa il nostro padrone, è spietato. Le persone che entrano nella logica dell’accumulo, dell’avidità, ne rimangono alla fine schiacciate e schiacciano anche gli altri. Al dio-denaro si sacrificano tante persone, per lui si rovinano relazioni importanti tra amici, a volte anche tra fratelli (quante volte per un’eredità si rovinano relazioni decennali tra fratelli, parenti). Se il denaro è al servizio, senza sperperarlo, ma usandolo bene, possiamo fare grandi cose; se invece diventa lo scopo della nostra vita, dal meccanismo dell’avidità nascerà un’ansia continua. Pensiamo alla celebre novella di Giovanni Verga, “La roba”, e al suo protagonista Mazzarò: non so se Verga si sia ispirato al Vangelo, ma nel Vangelo di Luca troviamo quella parabola in cui c’è un uomo molto ricco che ha avuto raccolti abbondanti, e che ragiona fra sé e sé: “Che farò? Non ho dove mettere i miei raccolti, quindi costruirò dei granai più grandi e poi – questo è il particolare che mi ha sempre colpito – dirò all’anima mia ‘goditi tutti questi beni’”. Non riesce a parlare se non a se stesso: è proprio la caricatura della persona ormai avvolta nei beni ed incapace di ragionare sulla condivisione. Poi Gesù afferma che quella notte all’uomo fu detto “stolto, ti sarà richiesta la tua vita, e tutto quello che hai accumulato di chi sarà?”. Non si tratta, dunque, di condannare i beni (perché tutti ne abbiamo bisogno e sono dono di Dio) ma diventano una maledizione quando sono per noi il fine della vita. Allora Gesù con la prima risposta al diavolo ci aiuta a capire che il pane è importante, così come lo sono i beni e il denaro, ma più importanti sono le relazioni con i fratelli e con le sorelle.

Il diavolo però non si dà per vinto e tenta poi Gesù addirittura sulla sua relazione con il Padre. Lo porta nel punto più alto nel tempio di Gerusalemme, che era molto alto e anche collocato sulla collina (quindi il panorama era vertiginoso) e gli dice che se lui (Gesù) è il figlio, e se si fida davvero di Dio, allora deve metterlo alla prova. “Buttati e lui ti raccoglierà”. Il diavolo sta dicendo che con Dio bisogna fare dei contratti, dargli delle condizioni. Questa è una tentazione molto sottile nel credente: pensiamo, per esempio, a quando nella preghiera, si dice “Signore, ti chiedo questo” e si mette sul piatto della bilancia una rinuncia, una candela accesa, un fioretto (“Dio mi deve”). Ma Gesù risponde al diavolo: “non tentare il Signore tuo Dio” perché se Dio è veramente Padre e io sono Figlio non posso fare un contratto. Dio non è molto “portato” ai contratti: questi li facciamo fra di noi e servono perché non ci si può fidare di tutti, ma non si fanno, per esempio, in famiglia. Per Dio non siamo dei clienti, né tantomeno degli schiavi: siamo dei figli. Certo, a volte la nostra preghiera, il nostro rapporto con Dio è faticoso perché vorremmo delle cose che non otteniamo; così capita ai bambini, quando i genitori non danno loro le cose che chiedono (perché i genitori vedono più in là e sanno bene che soddisfacendo sempre e comunque le richieste, alla fine farebbero il male dei propri figli). Allora, il rapporto con Dio deve essere un rapporto filiale, non servile né commerciale, infatti – come insegna Gesù, di lì a poco, nel Vangelo – non ci rivolgiamo a Dio dicendo “padrone nostro” ma “padre”. Certamente chiediamo anche il pane quotidiano, però affidiamo a Lui i modi e i tempi dell’esaudimento; sappiamo che la nostra preghiera entra nel cuore di Dio quando è fatta con le dovute intenzioni, non contro qualcuno. Questo affidarsi a volte è molto difficile: sarebbe più congeniale fare un bel contratto, “se tu sei Dio, io rinuncio a questo, e tu devi…”.

L’ultima tentazione riguarda il rapporto con gli altri. Il diavolo condusse Gesù sopra un alto monte, gli mostrò tutti i regni del mondo con la loro gloria e gli disse: “io tutte queste cose ti darò se prostrandoti mi adorerai”. Gesù risponde: “adora il Signore tuo Dio”. La tentazione del potere: tutto è tuo, puoi spadroneggiare, mi devi solo adorare. Usare il potere per spadroneggiare, per affermare se stessi, per costruirsi un podio: è una tentazione costante; il potere non è di per sé qualcosa di negativo, perché nel momento in cui due persone si mettono in relazione nasce anche una dinamica di potere (i genitori hanno potere sui figli, i quali a loro volta hanno potere sui genitori, e così gli insegnanti, i catechisti, i sacerdoti, marito e moglie). Potere vuol dire che io attraggo, ho un fascino, do qualcosa. Il potere diventa (come il denaro) spietato quando è cercato per se stesso (il potere per il potere): allora, diventa abuso (il famoso “abuso di potere), diventa possesso (il tentativo di possedere l’altro). Su questo punto Gesù è stato di una chiarezza quasi inimitabile: non ha negato di avere il potere, anzi più volte quando faceva i miracoli la gente lo ammirava perché “lui ha una vera autorità non come gli scribi”. E poi dopo la risurrezione, alla fine del Vangelo di Matteo, lui stesso dice “mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”. Solo che Gesù ha piegato totalmente il potere al servizio: ha detto infatti “io non sono venuto per essere servito ma per servire”. Nei confronti degli altri, noi abbiamo questa alternativa continua: possiamo essere dei predatori o dei donatori. Predatori: cioè attirare verso di noi, metterci come unità di misura, come metro, nei confronti degli altri, in tutte le relazioni (in quelle di coppia, in quelle parrocchiali, nelle relazioni di lavoro, in quelle familiari), oppure possiamo donare, che non significa fare finta di non avere potere, di non avere capacità, ma significa esercitarle nella forma del dono, facendole circolare. Questa è una alternativa continua: io affascino per attirare a me oppure mi dono per dare ossigeno anche agli altri?

La Quaresima è un tempo importante e intenso perché ci prepara alla Pasqua e ci richiama proprio all’uso bello (e buono) della libertà. Noi abbiamo questo margine di libertà dentro alle nostre scelte: dobbiamo chiederci sempre se stiamo scegliendo per il bene. E questo è anche il tessuto della pace: abbiamo tanto bisogno di pace, perché è in pericolo, anzi è contraddetta da tante guerre. Dobbiamo cominciare tra di noi, facendo continuamente delle scelte di pace.

Concludo con questo esempio: immagino la pace e la guerra come le radici e le fronde di una pianta; la guerra è come le fronde che sono scosse dal vento, fanno fruscio, si vedono e se c’è una tempesta cadono; la pace è come le radici: non si vedono però nutrono la pianta. Noi possiamo essere operatori di pace nel nostro quotidiano e  essere proprio questo tessuto di pace: queste radici di pace che innestiamo nella nostra vita di ogni giorno (nella famiglia, nel lavoro, nella comunità parrocchiale) sono quello che sostiene il mondo. Sapete che oggi (secondo le Nazioni Unite) ci sono 169 conflitti in atto? Non c’è solo quello in Ucraina, ma altri 168 (di cui una decina molto pesanti: per esempio, in Siria, nello Yemen, in alcuni Paesi nell’Africa e poi altre decine e decine di conflitti che noi chiamiamo locali perché sono lotte civili, tra etnie o tra gruppi sociali, che comportano morti e terrorismo). Queste sono le fronde, inquietanti, terribili: pensiamo solo ai 5 milioni di profughi dell’Ucraina, tra cui 1 milione e mezzo di bambini (che cosa rimane negli occhi di questi bambini?). Ma se il mondo va avanti è perché sotto c’è una rete di pace che non fa parlare di sé, ma che viene avanti nel quotidiano; una rete che è di chi gioca la propria libertà non per sfruttare, violentare, dare addosso all’altro, ma per donarsi. E credo che nelle nostre comunità civili e cristiane questo lo si veda molto bene. Quindi dobbiamo avere speranza perché c’è questo reticolato di pace, che proprio nel momento che stiamo vivendo oggi nel mondo, fa risaltare ancora di più, nella sua attualità, quanto dice il Vangelo.

Il giornale di oggi è già vecchio perché riporta le notizie di ieri; il Vangelo è scritto un’ora fa perché riguarda il cuore e ci dice non che cosa dobbiamo fare o che cosa sta succedendo nel mondo, ma come essere persone di pace.

+ Erio Castellucci