Memoria di San Giuseppe Lavoratore

Omelia di mons. Erio Castellucci, Amministratore Apostolico - Cattedrale di Carpi – 1° maggio 2020

Il 1° maggio in Cattedrale a Carpi monsignor Erio Castellucci ha presieduto la messa per il mondo del lavoro promossa quest’anno dagli uffici per la pastorale sociale e del lavoro delle diocesi di Carpi e di Modena e dalle ACLI provinciali, a porte chiuse e in diretta su TVQUI.

Nel rito introduttivo sono stati ricordati i passaggi epocali che hanno caratterizzato l’evoluzione del sistema produttivo locale segno di intraprendenza e di capacità di cogliere le sfide dei vari periodi storici e delle crisi che hanno attraversato anche i tempi recenti.

Diretta televisiva TvQui

     Gen 1,26-2,3; Sal 89; Mt 13,54-58  –

Dio “cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro che aveva fatto”. Il settimo giorno, il sabato, per gli ebrei è il giorno del riposo dal lavoro. La Genesi raccolse l’antica tradizione religiosa per la quale Dio – dopo avere creato il mondo in sei giorni – ne prese uno di riposo. Così il popolo di Israele introdusse nella civiltà il ritmo settenario, poi diversamente vissuto nelle varie culture. Il cosiddetto “racconto della creazione” contiene una profonda simbologia: Dio stesso opera, lavora, per costruire un mondo ordinato, non lasciato al caos o allo stato selvaggio. Il lavoro quindi, per la Bibbia, è un’attività che discende da Dio, ha una dignità che supera la semplice logica del bisogno e della sussistenza; è un’opera che costruisce, ordina, eleva la natura e l’uomo stesso che la compie. A questa considerazione alta del lavoro, il racconto della Genesi aggiunge, per così dire, il suo ridimensionamento. Il sabato, giorno del riposo, è necessario perché l’uomo non viva “mangiato” dal lavoro, ma avverta la festa come mèta della sua attività terrena; il sabato è come uno squarcio di eternità piantato nel tempo; il ritmo lavoro-festa – non solo il lavoro e non solo la festa – assicura una vita degna. Il lavoro senza la festa rischia di ridurre l’uomo a rotella di un ingranaggio fatto solo di bisogni biologici e del loro soddisfacimento; la festa senza il lavoro sfuma in un ozio fine a se stesso, che priva la società e la persona delle energie che la costruiscono e le danno ordine.

Abbiamo vissuto in questi mesi una situazione inedita: la maggior parte dei lavoratori si trova costretta ad una specie di sabato prolungato, una inattività forzata e indesiderata. Questo periodo non si può certo chiamare “festa”, perché è segnato da dolore, tensione, disoccupazione. È vero che alcune attività si sono consolidate e addirittura intensificate; è vero che alcune aziende hanno avviato o realizzato un processo di riconversione, che permetterà loro anche nella fase intermedia, in cui stiamo entrando, non solo di resistere, ma forse anche di crescere. È vero, poi, che alcune professioni si sono rivelate particolarmente preziose in questa pandemia: rendiamo omaggio alla dedizione e alla testimonianza di tanti medici, infermieri, operatori sanitari, volontari e Protezione civile; ma pensiamo anche al lavoro delle istituzioni e degli amministratori, alle forze dell’ordine, agli addetti alle banche e ai servizi postali, ai docenti, agli psicologi, ai ministri delle comunità religiose, ai sindacalisti e agli operatori della comunicazione e del digitale; e ricordiamo infine tutti quei lavoratori che svolgono mestieri umili, dimostratisi invece di particolare importanza: come le assistenti impegnate nelle famiglie e nelle strutture, i fornitori, i corrieri, gli operatori ecologici, alcuni commercianti, il personale delle pulizie. Tutto questo è vero e merita enorme riconoscenza. Resta però drammatica la situazione di molti che hanno perso o perderanno il lavoro: e si parla di milioni di persone La disoccupazione, come sappiamo bene, trascina con sé tante fragilità: povertà materiale, intere famiglie in crisi, danni psicologici, vizi e dipendenze, demotivazione sociale, senso di frustrazione.

Alle parole d’ordine degli ultimi decenni – parole che hanno guidato la vita sociale nazionale almeno fino alla crisi economico-finanziaria scoppiata dodici anni fa – come “competitività, produzione, profitto, crescita”, si dovranno affiancare parole che, pur entrate nel lessico culturale e giuridico, sembravano assodate e si pongono invece come traguardi: “solidarietà, sussidiarietà, dignità della persona e della famiglia”. Anzi, proprio queste parole dovranno prendere il timone della barca, per evitare che la tempesta la rovesci. I sacrifici non potranno ricadere solo da chi risulta colpito dalla crisi, ma si dovranno ripartire proporzionalmente, appellandosi in modo efficace a chi ha i mezzi per creare lavoro. Sarà necessario rinsaldare le due serie di parole, per capire che l’economia di mercato trova la sua misura nell’economia dell’equità, La dottrina sociale della Chiesa, in fondo, non fa che riproporre da 130 anni questa prospettiva: concorrenza e solidarietà insieme, proprietà privata dei beni e loro destinazione pubblica insieme, condivisione dei mezzi di produzione e dei profitti. Sappiamo tutti quale massa di esperienze sia nata da questa ispirazione: dalla cooperazione all’imprenditoria sociale e all’economia solidale. Sulla base di queste esperienze possiamo sperare che nei prossimi mesi e anni la crisi si affronterà non con l’ottica di una semplice ripartizione delle risorse esistenti – che da sola si tradurrebbe in una elemosina sociale, utile nell’immediato ma dannosa sui tempi lunghi – bensì con l’ottica della “creazione” del lavoro, che è l’incentivo sociale più efficace e rispettoso della dignità delle persone. Ciò significa, come si sta prospettando in queste settimane, innovazione, riorganizzazione degli orari e dei ritmi, diffusione delle nuove tecnologie: tutto nel rispetto del diritto alla salute.

Preparando queste piccole riflessioni, mi risuonavano due frasi che oggi, primo maggio, tutti noi abbiamo sentito. La prima è nel Vangelo di oggi e la seconda nella Costituzione. “Non è costui il figlio del falegname?”, si chiedono i concittadini di Gesù ascoltandolo: “da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi?”. La Palestina a quel tempo faceva parte del grande impero romano; e, pur parlando in aramaico, gli ebrei avevano assorbito la distinzione latina tra otium e negotium, cioè tra le attività che oggi definiremmo intellettuali e ricreative da una parte e quelle manuali e legate alla sussistenza dall’altra. E non riescono a capire come mai Gesù, “il figlio del falegname”, quel ragazzo che avevano visto in giro con suo padre Giuseppe a riparare tetti, costruire mobili e posare mattoni, ora – diventato adulto – parlasse così bene e operasse addirittura dei segni straordinari. Con la sua stessa esperienza, Gesù scombina la divisione netta tra professioni nobili e lavori servili. Anzi, la capacità di parlare dritto ai cuori e di porre concreti gesti di aiuto l’ha senz’altro maturata nella concretezza dell’attività manuale e domestica. Concretezza che ritroviamo nelle sue parabole, così incisive e provocatorie anche perché intrise di riferimenti ai mestieri del tempo: pastori, mercanti, pescatori, banchieri, agricoltori, viticoltori e servi. Gesù crea quel ponte solido tra professioni e mestieri, lavori intellettuali e lavori manuali, che sembra oggi ancora più attuale, se pensiamo a quale creatività potrà richiedere la crisi nella quale siamo entrati. La seconda frase è l’inizio stesso della nostra Carta costituzionale: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”; dove “lavoro” è inteso nel senso più ampio possibile, raccogliendo tutte le attività che portano beneficio materiale e spirituale alla società. I padri costituenti avrebbero potuto indicare altri fondamenti, effettivamente evocati: ad esempio cominciare da un ideale come la dignità, oppure fondare lo Stato sul rispetto, la tolleranza, l’impegno, la giustizia, il sacrificio. O magari richiamare all’inizio il concetto di persona, la realtà della famiglia o il bene comune. Scelgono invece di fondare l’Italia sul lavoro. Ed è stata una scelta profetica, di cui ora avvertiamo, dolorosamente, l’importanza. Fondare lo Stato sul lavoro significa ritenerlo costituito non da qualche ideale superiore, per quanto elevato – l’Italia usciva da una dittatura che si riteneva fondata sui grandi ideali della Roma antica – ma dall’apporto di tutti i cittadini, da questa rete di base che lo alimenta e lo sostiene. Il lavoro è il termometro più sensibile del grado di dignità, rispetto e giustizia di una convivenza civile; è il volano che sostiene la persona, la famiglia, la società e lo Stato; è la misura della solidarietà e dell’equità, è lo strumento che realizza il bene comune. Il “figlio del falegname” assista tutti nell’opera che attende il nostro Paese, l’Europa e gran parte del mondo: ricostruire la rete sociale attraverso la riorganizzazione e il rilancio del lavoro.