Modena, Cattedrale

Messa in Coena Domini

(Es 12,1-8.11-14   Sal 115   1Cor 11,23-26   Gv 13,1-15)

Una tavola, un catino e una croce. Da otto secoli sono scolpiti nel bassorilievo del pontile del Duomo, raccontando gli ultimi due giorni della vita di Gesù. Una tavola attorno alla quale è radunato Gesù con gli apostoli. Un catino che rappresenta l’abbassamento di Gesù che lava i piedi a Pietro. Una croce che costituisce l’ultimo atto terreno della vita del Signore.

Stanno insieme, il catino, la tavola e la croce: e ci parlano di servi. Alla tavola servivano i diaconi, cioè quegli schiavi che ormai dentro la casa avevano fatto carriera e potevano essere dei domestici, o maggiordomi, i quali coordinavano gli altri schiavi organizzando il servizio delle mense. Gesù però non si identifica con il maggiordomo, ma addirittura con il cibo. Il pane diventa il suo corpo, il vino diventa il suo sangue. È una forte simbologia, quella del pasto; è una pallida idea di cosa significa farsi nostro cibo, donarsi, quasi sbriciolandosi, quasi svenandosi per noi.

Ma l’evangelista Giovanni, che conosce bene la storia dell’ultima cena, il mistero all’eucarestia, (vi dedica il lungo capitolo 6 del Vangelo), in questo momento preferisce concentrarsi sul catino. Preferisce dirci quale è il senso del farsi pane e del donarsi di Gesù. Gesù qui è rappresentato come l’ultimo schiavo della casa, perché lavare i piedi agli ospiti e ai commensali era un compito riservato proprio agli schiavi appena assunti, quelli che dovevano ancora far carriera in casa. Gesù dunque si abbassa fino a rivestire i panni dell’ultimo schiavo; cosa insopportabile per Pietro: “Tu non mi laverai i piedi!”. Non è facile accettare che il Signore e Maestro, da cui ci si aspettava una liberazione gloriosa, si metta un grembiule come l’ultimo dei servi e cominci a lavare i piedi.  È un Signore che non corrisponde alle attese, le capovolge. Il catino è l’anticipazione della croce; proprio come l’eucarestia, il catino svelerà il suo significato il giorno dopo: nella crocifissione di Gesù, la pena riservata agli schiavi, la pena che rappresentava la più grande vergogna per chi la subiva, una pena inaccettabile per il Figlio di Dio.

Gesù il giovedì, attraverso l’eucarestia e la lavanda dei piedi, profetizza il venerdì. I riti del pane e del vino e del catino sono anticipi della croce, ne svelano il significato: quello che Gesù il giovedì compie ritualmente, il venerdì lo compie personalmente. Tutta questa ricchezza non è andata perduta: sia consegnando il pane e il vino, sia lavando i piedi ai discepoli, Gesù domanda che questi gesti si ripetano; “Fate questo in memoria di me” dice del pane e del vino. “Anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”, dice del catino. Perché quando noi professiamo che lui è vivo e non è solamente un personaggio del passato, non lo dobbiamo fare semplicemente con le labbra, lo dobbiamo fare con il corpo, con tutto noi stessi; per questo si è fatto cibo: per entrare nel nostro corpo. E lo dobbiamo fare uscendo dal perimetro del nostro corpo, chinandoci ai piedi del fratello; per questo si è messo il grembiule e ha lavato i piedi ai discepoli.

L’eucarestia e il servizio: sono i due grandi annunci della presenza del Signore. Anche oggi, anche in questo tempo così difficile, sono i due grandi segni di speranza. Gesù risorto è passato attraverso la vergogna della croce e quindi non è sospettabile di essere un Dio distaccato e lontano; Gesù risorto si rende vicino agli uomini di ogni epoca, alle persone con cui viviamo, ai nostri familiari, amici, colleghi… si rende presente attraverso questi due segni: fare corpo tra di noi e servire; cioè il segno della comunione, eucaristica ed ecclesiale, e il segno della prossimità: uscire da noi stessi, andare incontro alle necessità dei fratelli. Chiediamo al Signore che la festa dell’eucarestia ci metta nel cuore l’unica sana inquietudine, quella di amarci e di amare i fratelli, specialmente coloro che sono più fragili e soli.

+ Erio Castellucci