Omelia dell’Arcivescovo Castellucci nella Giornata per la Vita Consacrata

2 febbraio 2023

Malachia 3,1-4; Salmo 23; Ebrei 2,14-18; Luca 2,22-40

Si presenta come offerta o come sacerdote, Gesù, quando entra nel tempio a quaranta giorni dalla sua nascita? Si direbbe – stando al Vangelo – che viene presentato come offerta dai genitori, Maria e Giuseppe, perché ogni maschio primogenito doveva essere offerto a Dio in segno di gratitudine per il grande dono della vita, dato che il primogenito era il prescelto per proseguire la famiglia; non potendo, naturalmente, offrire lui stesso in sacrificio – perché non esisteva il sacrificio degli esseri umani nella prassi di Israele essendo ogni umano immagine e somiglianza di Dio – allora si offriva un animale sostitutivo. Se la famiglia era ricca, un animale grande, ad esempio un vitello, e se la famiglia era povera, tortore e colombi; in ogni caso, animali puri che dovevano esprimere la purezza di questa offerta.
Però stando alla lettera agli Ebrei, Gesù entra nel Tempio non come semplice vittima, ma come sommo sacerdote “misericordioso e degno di fede”; non cioè come gli altri sommi sacerdoti che entravano nel tempio per offrire sacrifici ma – dice sempre la lettera agli Ebrei – dovevano ripetere più volte questo gesto, non riuscendo ad offrire un sacrificio perfetto. Possiamo dunque concludere che Gesù entra nel tempio sia come offerta sia come sommo sacerdote: e questo è possibile solo a lui, perché solamente lui concentra nella sua persona sia colui che offre sia colui che è offerto. Del resto, le due parole che usa la lettera agli Ebrei per parlare di Gesù come sommo sacerdote, misericordioso e degno di fede, indicano i due movimenti che solo in Gesù si realizzano pienamente: da Dio a noi e da noi a Dio.
Sommo Sacerdote misericordioso: da Dio a noi. Possiamo raffigurarci tre gradini che il Signore percorre in discesa dal cielo fino alla terra. Lo diciamo con le parole della lettera ai Filippesi di Paolo: il Figlio ha assunto la natura umana, lui che era simile a Dio, lui che era della stessa natura di Dio ha preso la nostra natura, ha fatto il salto in giù dell’incarnazione, un evento incredibile, un salto del tutto inatteso, un salto che scandalizzava, perché anticamente sia gli ebrei che i greci credevano in una divinità che doveva essere potente e non si doveva sporcare le mani con l’umano. Ma non si è accontentato di questo primo gradino e ne ha percorso un secondo; san Paolo dice che si è svuotato “fino alla morte”: non si è cioè accontentato di visitare la nostra natura, di passeggiare qualche anno sulla terra, ma ha voluto prendere su di sé anche l’esperienza umanamente più terribile e temibile, quella della morte. Ma nemmeno si è accontentato di questo e ha sceso un terzo ed estremo gradino: aggiunge lo stesso Paolo: “e la morte di croce. Non una morte qualsiasi, non un transito sereno attorniato dai discepoli, ma la morte dello schiavo, la morte dell’escluso. Addirittura, la morte di colui che veniva ritenuto maledetto da Dio, in quanto crocifisso (cf. Gal 3,13). Misericordioso, dunque, perché in quanto Dio ha preso davvero tutta la nostra miseria nel suo cuore.
Ma Gesù nello stesso tempo ha percorso anche il cammino inverso, da noi a Dio, e si è fatto offerta pura: non solo sommo sacerdote, ma anche vittima; possiamo nuovamente immaginare tre gradini, ma questa volta in salita. Gesù comincia la sua missione con successo: è attorniato da folle, migliaia di persone lo cercano e quasi lo assediano, a volte lo opprimono al punto che deve salire sulla barca o sul monte per sfuggire alla pressione della folla. Però ben presto, quando le folle capiscono il suo vero messaggio, che è un messaggio di impegno e sacrificio, e non la soluzione magica dei loro problemi, pian piano se ne vanno; le folle gli girano le spalle, fino ad arrivare al punto in cui grideranno che è meglio salvare Barabba. Questo primo gradino lo porta a scegliere Dio rispetto alla gente, lo porta a rinunciare alla popolarità pur di rimanere fedele al Padre. Ma proseguendo nel suo cammino, Gesù deve fare una seconda scelta: questa volta tra il Padre e i discepoli. Tutto sommato non è così difficile rinunciare alle lodi e agli applausi delle folle, quando c’è almeno un gruppetto di amici con cui si va d’accordo, tra cui ci si stima… ma quando anche gli amici cominciano ad andarsene, allora la vita diventa dura e le critiche, i rinnegamenti, i tradimenti – il “fuoco amico” insomma, creano un senso di solitudine e di abbandono. E Gesù a un certo punto ha dovuto scegliere tra l’accoglienza da parte dei discepoli e l’obbedienza alla volontà del Padre. “Forse anche voi volete andarvene?” (Gv 6,67). Ma non basta neppure questo secondo gradino: ad un certo punto Gesù ne sale un terzo, quando sulla croce deve rinunciare addirittura al senso della presenza di Dio: “Dio mio perché mi hai abbandonato?”; questa rinuncia per il credente è la più terribile di tutte: la rinuncia alle folle passi, la rinuncia alle amicizie, pazienza, ma la rinuncia alla presenza di Dio è la prova più forte che Gesù abbia attraversato. Anche lì ha saputo però farsi offerta: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”.
Così in Gesù c’è allo stesso tempo un Dio che scende tutti i gradini della solidarietà con l’uomo e di un uomo che sale tutti i gradini dell’affidamento a Dio. I due movimenti si incrociano sul Golgota: la croce è la raccolta di entrambi i movimenti, di un Dio che si abbassa all’estremo e di un uomo che si innalza al massimo; la croce il momento culminante dell’amore di Dio per l’uomo e dell’amore dell’uomo per Dio. Chi entra dunque nel tempio? Entra il sommo sacerdote ed entra la vittima, entra colui che è stato misericordioso con gli uomini fino al massimo possibile, ed entra colui che è stato fedele a Dio fino al massimo possibile.
Il bello è che tutto questo non costituisce semplicemente un buon esempio, il che sarebbe già molto; ma se Gesù ci avesse semplicemente dato un buon esempio di come si condivide con i fratelli e le sorelle e di come ci si affida al Padre, noi registreremmo la nostra impotenza, perché non possiamo condividere nella sua stessa misura e nemmeno ad affidarci pienamente come lui. La nostra misericordia e la nostra fedeltà sono sempre fragili e ferite. Il bello – dicevo – è che non si tratta solo di un buon esempio. Il bello è che lui ha preso nella sua carne anche la nostra, ha già realizzato questa doppia fedeltà: noi non dobbiamo fare altro che inserirci in lui, lasciarci trasportare da lui, entrare nel suo corpo. Questo mistero si chiama Chiesa. Noi non siamo Chiesa per il fatto che mettiamo insieme le nostre buone volontà e i nostri meriti: saremmo solo un club e falliremmo presto. noi siamo Chiesa perché veniamo letteralmente “accorpati”, entrando nel suo corpo attraverso il battesimo e la confermazione e alimentando continuamente la nostra incorporazione a lui attraverso il corpo eucaristico. È questa la nostra forza: se fosse tutto basato sullo sforzo di imitare un buon esempio, saremmo davvero perduti e dovremmo solo dire: “Non ce la faccio”. Se invece siamo già dentro il suo corpo e ci facciamo trasportare da lui, allora non abbiamo tanta paura quando il successo ci abbandona, quando proviamo tradimenti e rinnegamenti, quando attraversiamo dei momenti in cui avvertiamo Dio lontano o assente. Non abbiamo paura, perché Gesù ha già vissuto tutto questo nel suo corpo, che è anche il nostro, che è la Chiesa.
Ringraziamo il Signore per il dono di chiamarci ad essere cristiani, ad essere molti di noi consacrati e consacrate, ad essere ministri ordinati, ad essere dei discepoli che cercano di seguirlo; ringraziando, perché seguire il Signore, non significa andargli faticosamente dietro, ma lasciarsi prendere in braccio da lui.