Omelia del Vescovo nel Mercoledì delle ceneri

Duomo di Modena – 22 febbraio 2023

Mercoledì delle ceneri

Gl 2,12-18; Salmo 50/51; 2Cor 5.20-6,2; Mt6,1-6.16-18

Chi sono questi ipocriti contro cui Gesù parla, per ben tre volte? Quando fai l’elemosina non fare come gli ipocriti, quando digiuni, quando preghi non fare come gli ipocriti. Gli ipocriti letteralmente sarebbero coloro che mettono una maschera, per apparire diversi da come sono in realtà, per nascondere la parte più brutta di loro e mostrare quella più bella. Gli ipocriti sono quelli preoccupati unicamente dell’opinione della gente, coloro che vogliono dare un’idea di loro stessi, onorevole, bella, mentre dentro non sono così. Gesù pensa in particolare a quei farisei che al suo tempo si preoccupavano più di apparire che non di essere: scribi e farisei ipocriti, siete come dei sepolcri imbiancati.
Ma Gesù ha una medicina contro l’ipocrisia: chiede di liberarci dallo sguardo della gente per preoccuparci dello sguardo di Dio: quando fai l’elemosina, digiuni e preghi, cioè quando compi le opere della Legge, non misurarti su ciò che la gente pensa di te, su quello che si vede da fuori, non preoccuparti di essere lodato dalla gente, preoccupati dello sguardo di Dio, perché Dio che vede nel segreto ti ricompenserà. Liberazione dall’ipocrisia significa avere cura dello sguardo di Dio più che degli sguardi umani. E non è tanto facile: perché tutti siamo preoccupati di cosa penserà la gente, cosa dirà la gente, cosa si dice in giro di noi, come poter nascondere i nostri difetti ed esibire i nostri pregi. Tutti abbiamo la sindrome del teatro: bisogna recitare bene, poi la realtà – in fondo – se la gente non la vede, può essere anche diversa dalla recita. Gesù rovescia il criterio. La maturità e – si potrebbe dire – la felicità di una persona si misura dalla cura che ha per lo sguardo di Dio, anche sfidando a volte gli sguardi degli uomini.
Le tre pratiche suggerite da Gesù e lo stile con il quale le suggerisce, sono un esercizio di libertà. Libertà dagli sguardi umani e affidamento allo sguardo di Dio, a cominciare dalla preghiera, che Gesù elenca per ultima ma sulla quale poi si diffonderà: dopo questo richiamo alla preghiera Gesù infatti insegna il Padre nostro. La preghiera è il primo atto di libertà, perché ci mette in una relazione con Dio non come padrone, ma come padre. Il Padre nostro in lingua originale è formato da 57 parole: ma basterebbe la prima, “Padre”, per capire che è un esercizio di libertà. Non è lo schiavo che si rivolge al padrone, o un cliente che si rivolge al negoziante; è un figlio che si rivolge ad un padre; un Dio libero che vuole il nostro bene, al quale noi ci rivolgiamo come figli liberi, che chiedono, hanno l’audacia di domandare affidandosi a lui. La preghiera autentica, quella che Gesù ci ha insegnato, non è la preghiera di sudditanza degli schiavi o la preghiera commerciale dei clienti: è un esercizio di profonda libertà. Io nella mia libertà chiedo a Dio ciò che mi sembra meglio affidando a lui, nella sua libertà, i tempi e i modi dell’esaudimento.
Poi il digiuno, che andrà modulato a seconda delle diverse situazioni. E’ un esercizio di libertà nei confronti delle cose, degli alimenti, degli oggetti, di tutto ciò di cui possiamo dire: “è mio”. Rinuncio a qualcosa su cui avrei diritto, proprio perché sono libero, non sono il risultato di ciò che mangio o di ciò che possiedo; il mio essere è molto più del mio avere. La rinuncia a qualcosa rappresenta un esercizio di libertà interiore, uno spazio che mi umanizza, mi fa comprendere, a volte anche con un po’ di fatica – perché la rinuncia è sempre un po’ faticosa – che io sono più grande delle cose che possiedo.
Ma il digiuno non è fine a se stesso, non è orientato semplicemente a sentirsi più grandi delle cose, è orientato alla condivisione: per questo Gesù ci parla anche dell’elemosina. Nella lingua ebraica e aramaica non esiste il termine elemosina come la intendiamo noi, cioè come quel gesto non dovuto di benevolenza, se non addirittura di compassione: esiste la parola giustizia che si traduceva sostanzialmente nella decima parte del proprio guadagno che andava ai poveri. Questo era considerato un dono come atto di giustizia, non un “di più” facoltativo. Gesù sta dicendo che ci vuole una libertà anche nei confronti degli altri, la libertà di donare. Non possiamo costruire delle relazioni con i fratelli e le sorelle semplicemente funzionali, come se le nostre relazioni dovessero essere improntate unicamente al dare e avere; è necessaria una giustizia, una compensazione delle povertà nella forma di un dono che non pretende il contraccambio: un altro esercizio di libertà.
La Quaresima è dunque un esercizio di libertà: non è la fiera dei musi lunghi, non è una tristezza che dura quaranta giorni, è un guadagno di libertà interiore, perché siamo posti di fronte allo sguardo di Dio. La domanda più seria non dovrebbe essere mai: “cosa penserà la gente?”, ma: “cosa penserà il Signore?”. E cosa penserà il Signore lo sappiamo già: penserà che siamo dei figli amati anche quando sbagliamo, penserà che abbiamo sempre bisogno del suo amore e della sua misericordia in qualsiasi situazione ci troviamo. E se per caso avesse pensato di arrabbiarsi e di punirci – così immagina il profeta Gioele – sarà lui stesso a convertirsi: espressione molto forte che si trova solo due volte nell’Antico Testamento, una delle quali appunto nella prima lettura di oggi: “chissà che Dio non si ravveda”. E’ un’immagine umana molto bella per comprendere la qualità dello sguardo di Dio: anche se a volte, per assurdo, potesse essere tentato dal rancore, il suo è sempre uno sguardo paterno e materno, è sempre uno sguardo di benevolenza verso di noi.
La Quaresima è – prima di tutto – la conversione di Dio verso di noi, cioè il Signore che getta sguardo sempre nuovo, sempre buono, e ci chiede come esercizio di libertà di corrispondere a questo sguardo con la nostra conversione.