Natale, messaggio e omelie di monsignor Castellucci

“Dio è con noi. È con noi nella notte della fatica e del dolore, facendo balenare una luce; è con noi in mezzo ai decreti, trasformandoli in opportunità per attingere all’essenziale; è con noi nella grotta della paura, alleviando la solitudine; è con noi sulla mangiatoia della fragilità, facendovi spuntare la vita. Proprio questo è il suo nome: Emmanuele, Dio con noi”.
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Messaggio Natalizio del Vescovo Castellucci

“Vivremo quest’anno una notte di Natale diversa da quelle degli anni precedenti. Il buio è più fitto, la tenebra più densa – scrive il Vescovo Erio Castellucci nel suo messaggio natalizio – ma quella notte fu spezzata da una luce improvvisa: ‘un angelo del Signore si presentò a loro’”.

Tra gli elementi di diversità del Natale 2020 sicuramente ritroviamo il “coprifuoco” che impone il rientro alle ore 22 con conseguente anticipo delle messe della notte di Natale. Nelle famiglie però l’attesa della mezzanotte per scambiarsi auguri e doni resta un momento magico da vivere tutti insieme specie con i bambini.

Per questo motivo giovedì 24 dicembre, alle ore 23, non potendo farlo di persona, il Vescovo Erio entrerà virtualmente in ogni casa tramite un videomessaggio che sarà trasmesso da TVQUI (canale 19 e streaming su tvqui.it) e in contemporanea sul sito della Diocesi diocesicarpi.it

La proposta del videomessaggio è stata lanciata dai sacerdoti della Diocesi di Carpi e subito accolta dal Vescovo.

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OMELIA NELLA NOTTE DI NATALE

24 dicembre 2020
S. E. Mons. Erio Castellucci

– Is 9,1-3.5-6; Sal 95; Tt 2,11-14; Lc 2,1-14 –

Lo ricorderemo come il Natale delle restrizioni, regolato dal decreto legge emesso una settimana fa, che a sua volta aggiorna alcuni decreti della presidenza del Consiglio dei ministri. Gesù quest’anno nasce in mezzo ai decreti. Ma in fondo fu così anche duemila anni fa: “in quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra”. Il Figlio di Dio viene al mondo a Betlemme a causa di un decreto imperiale, per cui Giuseppe volle farsi registrare nel suo villaggio d’origine, che era lo stesso del grande re Davide; per questo affrontò un viaggio di oltre cento chilometri, certo non banale all’epoca, insieme a Maria che, oltretutto, stava per dare alla luce il bambino. In questo modo Gesù poté nascere proprio a Betlemme di Giudea, realizzando le antiche profezie. Gesù, del resto, per tutta la vita si troverà in mezzo a norme e decreti: 40 giorni dopo sarà circonciso e offerto al Tempio, per osservare la legge ebraica sui primogeniti; nella sua infanzia, come dice il Vangelo, rimarrà sottomesso ai suoi genitori, osservando le regole familiari; a 12 anni andrà in pellegrinaggio con loro a Gerusalemme, seguendo le tradizioni religiose dell’epoca; da adulto, dirà di essere venuto non per abolire la legge, ma per compierla; e perfino il luogo della sua morte sarà scelto in base alle disposizioni vigenti, che stabilivano di crocifiggere i condannati fuori dalle mura della città santa, Gerusalemme, per non macchiarla.

Gesù dunque si muove tra i decreti, come dobbiamo fare noi, giustamente, essendo cittadini che osservano le leggi dello Stato e cristiani che aderiscono alle indicazioni della Chiesa. E lo facciamo in modo particolare in questo periodo di pandemia, dovendo rispettare la salute nostra e degli altri e facilitare il servizio di coloro che operano per contrastare questo contagio.

Ma Gesù non si accontentò di osservare i decreti: lui vi mise dentro un’anima o, per rubargli le immagini, un pizzico di sale e un raggio di luce. Dirà infatti un giorno ai discepoli di non accontentarsi della semplice aderenza alle leggi, ma di essere sale della terra e luce del mondo. Quella notte infatti, quando nacque nella stalla di Betlemme e fu posato sulla mangiatoia, il cielo si illuminò sui pastori e risuonò per loro un canto d’amore. Dice il Vangelo che “la gloria del Signore li avvolse di luce” e che gli angeli cantarono gloria a Dio e pace agli uomini, amati da lui. Questa luce e questo canto d’amore non erano previsti nel decreto di Cesare Augusto, al quale premeva solo il conteggio dei sudditi per una migliore organizzazione dell’impero; ma questa luce e questo canto d’amore poterono investire Betlemme, il villaggio del re Davide, proprio perché Giuseppe aveva deciso di obbedire al decreto. Le leggi da sole non fanno crescere le relazioni; ma se le osserviamo mettendoci dentro il sale dell’amore e la luce della fede, possono persino aiutarci a ritrovare l’essenziale.

Questo Natale è ferito, non c’è dubbio. Per chi ha vissuto e vive esperienze di paura, per chi è reso fragile dalla malattia – non solo dal covid – e per chi ha perduto delle persone care nel corso dell’anno; per chi sperimenta l’apprensione per i propri anziani impossibili da visitare e da abbracciare; per chi, impegnato in prima linea, ha provato il dolore di veder morire i malati, per chi ha perso il lavoro o si è trovato in situazioni familiari difficili… per tutti, insomma, è un Natale ferito. Proprio in questo giorno dell’anno affiorano i nostri sentimenti più profondi, e con essi emerge anche più acuta la mancanza delle persone che avremmo voluto con noi, in casa, a festeggiare.

Ma se il nostro cuore diventa una piccola Betlemme, quel bambino, che nasce in una situazione povera e compromessa come la nostra, ci porta ancora oggi un raggio di luce e di amore. Il nucleo del Natale è proprio questo: il Signore ci visita per farci sapere, non con sole le parole ma con la sua carne, che ci è accanto, che ci ama, che ciò che davvero conta non è il rivestimento esterno del Natale, ma il suo significato intimo: Dio è con noi. È con noi nella notte della fatica e del dolore, facendo balenare una luce; è con noi in mezzo ai decreti, trasformandoli in opportunità per attingere all’essenziale; è con noi nella grotta della paura, alleviando la solitudine; è con noi sulla mangiatoia della fragilità, facendovi spuntare la vita. Proprio questo è il suo nome: Emmanuele, Dio con noi.


OMELIA NEL GIORNO DI NATALE

25 dicembre 2020
S. E. Mons. Erio Castellucci

 

– Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6-14; Gv 1,1-18 –

 

È difficile immaginare due parole più distanti tra loro: “Dio” e “carne”. La prima, “Dio”, evoca da sempre le altezze del cielo; la seconda, “carne”, le bassezze della terra. Da quando è spuntata nella sua mente la domanda sul senso della vita, decine di migliaia di anni fa, l’essere umano ha chiamato “Dio” colui che supera il tempo e vive nell’eterno; ha invece chiamato “carne” tutto ciò che soccombe alla legge del tempo e finisce per morire. Dio è incorruttibile, la carne è corruzione; Dio è perfetto, la carne è fragile.

Forse è bene che ricordiamo questa distanza tra Dio e la carne, molto marcata nelle religioni antiche e moderne. È bene che la ricordiamo, per non abituarci a rivelazioni, come quella lanciata da Giovanni nel prologo del suo Vangelo, quando dice che “il Verbo era Dio” e, poco dopo, che “il Verbo si fece carne”. Una rivelazione che in realtà è una rivoluzione: il Verbo lega insieme Dio e la carne. Incredibile: due realtà che sembravano inconciliabili, lontanissime, si intrecciano nel Verbo.

Potrebbe apparire un ragionamento astratto, interessante magari per filosofi e teologi ma poco per tutti gli altri. Proviamo allora a dirlo in un altro modo. Il Creatore del mondo si fa creatura nel mondo; l’Altissimo Signore del cielo e della terra entra nell’esistenza umana attraverso una mangiatoia; la Parola stessa di Dio prende corpo in un bimbo incapace di parola; l’Onnipotente si lascia avvolgere in fasce da una giovane madre. Siamo dentro al cuore del paradosso cristiano, in quel mistero di fronte al quale si deve “prendere o lasciare”, perché una via di mezzo non è possibile. O il Figlio di Dio si è davvero fatto uomo, oppure il nucleo della nostra fede diventa una recita.

Infatti alcuni non accettano questo intreccio tra Dio e la carne, perché sembra uno scandalo. Come si può sporcare la natura di Dio con il corpo umano? Fin dai primi secoli del cristianesimo, qualcuno diceva che il Verbo ha preso le apparenze di un essere umano, ma non lo è diventato davvero. Pensavano di difendere la dignità di Dio, in questo modo, ma in realtà lo offendevano, perché l’amore di Dio ha voluto veramente identificarsi con la fragilità umana. Non ha finto, non è “apparso” in sembianze umane, non ha messo una maschera per sostenere una parte: si è svuotato della sua divinità per diventare uno di noi. Non ha avuto paura della carne.

Sarebbe stato meno scandaloso, certo, se il Verbo, invece di farsi carne, si fosse fatto anima o mente; se avesse cioè preso le parti ritenute più nobili della persona; ma Giovanni dice proprio che si è fatto “carne”, cioè ha preso tutto: corpo, sentimenti, affetti, intelligenza, bisogno di mangiare, bere e dormire. Ha preso anche la nostra debolezza, ha assunto le conseguenze del nostro peccato, si è addossato le nostre paure. Sarebbe pura poesia, il Natale, se quest’anno non avvertissimo che il Verbo si è fatto fragile, di quella stessa fragilità insinuatasi nella nostra carne; carne malata, e non solo per covid, carne impaurita dal crollo di tante sicurezze, carne colpita dalla solitudine, carne lacerata dalla morte e dal lutto. Questo Natale ci mette davanti tutto il peso della carne. E ci aiuta a capire quanto umanamente sia stata folle la decisione del Figlio di Dio di prendere un corpo. Si è buttato nella fossa dei leoni: e non a caso la sua carne, deposta alla nascita sulla mangiatoia,  finirà inchiodata su una croce e passerà attraverso un sepolcro, prima di risorgere e tornare al Padre. È follia, ma è la follia dell’amore: quella che spinge tante persone, anche oggi, a donare la vita per gli altri, a regalare energie per chi è piccolo, ferito e svantaggiato, a spendersi nel quotidiano della casa, del lavoro, dei luoghi di cura e di assistenza, delle aule scolastiche e delle comunità cristiane e civili. L’amore non risponde ai criteri dell’efficienza e del guadagno, non mette a bilancio le voci in uscita, ma vive della logica del gratuito, è un “di più” non richiesto.

La nascita di Gesù accende una luce nel buio delle sofferenze planetarie. Il Vangelo non si accoda al coro dei lamentosi, che si limitano a rilevare il male, il dolore, l’angoscia. Giovanni infatti paragona il Verbo di Dio alla luce che “splende nelle tenebre”. Quest’ombra che avvolge la terra, e produce e svela immani sofferenze, questa tenebra che sembra impenetrabile, è solcata da una luce. Non è una luce che abbaglia e risolve tutto con un miracolo; non piomberà Dio dal cielo a dissolvere la crisi. La fede cristiana non vive di attese magiche, ma vive di una presenza che accompagna anche nelle crisi; è come una fiaccola che, nei percorsi notturni, non illumina a giorno, ma serve a scorgere i tratti del sentiero. Il credente sa di non essere solo ad affrontare il dolore; sa che il Verbo si è fatto carne per sostenere la nostra carne, aprirle dei varchi di speranza, darle una prospettiva che la superi. La sofferenza, anche nel credente, rimane: ma è molto diverso attraversarla pensando di essere soli oppure sapendo, viceversa, di essere tenuti per mano da un Dio che conosce il sapore della fatica, un Dio che ha sperimentato la durezza della vita terrena, dalla pietra della mangiatoia al legno della croce. Nessun altro, se non il Verbo fatto carne, può indicare orizzonti che superano la morte; solo lui, Parola eterna, ha parole di vita eterna, che illuminano come fiaccole i passi quotidiani della nostra vita terrena.