Omelia di Mons. Castellucci nella terza domenica di Quaresima

Cattedrale di Carpi - 15 marzo 2020

All’inizio della Messa

Continuiamo anche in questa III domenica di quaresima a tenerci uniti attraverso gli strumenti della comunicazione, ringraziando in modo particolare TVqui. Salutiamo chi è collegato in diretta televisiva dalle case e dai luoghi di cura, i medici e gli operatori sanitari, specialmente quelli dell’ospedale di Carpi, sia gli operatori contagiati, sia quelli rimasti a fronteggiare il carico assistenziale; i volontari, i presbiteri e i ministri delle comunità, le forze dell’ordine, le amministrazioni locali e statali. In questa celebrazione eucaristica pregheremo ancora per tutti i malati del mondo, per la rapida cessazione del contagio, per chi sta vivendo difficoltà nel lavoro, per le famiglie che si trovano ad affrontare situazioni inedite. Chiediamo perdono dei nostri peccati, per preparare il cuore a ricevere il dono della parola di Dio.

 

Omelia – Es 17,3-7; Sal 94; Rom 5,1-2.5-8; Gv 4,5-42

La donna “lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: venite a vedere”… Era andata apposta al pozzo, a prendere l’acqua con l’anfora, e dopo l’incontro con Gesù la samaritana abbandona l’anfora vicino al pozzo; forse se la dimentica per la fretta di tornare in città a divulgare l’accaduto, o forse la lascia lì apposta, perché le avrebbe fatto da zavorra nella corsa. Sta di fatto che quell’anfora rimane accanto al pozzo. Sembrava lo strumento più importante, senza il quale la donna non avrebbe realizzato il suo servizio di portare l’acqua a casa; eppure rimane lì, inutilizzato, come un oggetto abbandonato. Non è la prima volta che l’incontro con Gesù produce degli oggetti abbandonati. La stessa sorte è capitata alle reti da pesca, alla chiamata dei primi discepoli sul mare di Galilea, quando Simone e Andrea le lasciarono a riva per seguire Gesù (cf. Mc 1,18). È successo anche al banco delle imposte, quando Matteo rispose a sua volta al “seguimi” di Gesù e abbandonò il suo lavoro di esattore. L’incontro con Gesù si lascia dietro degli “oggetti smarriti”, che prima parevano vitali, ma poi si dimostrano secondari. È il caso dell’anfora.

Nel dialogo con Gesù, la donna si sente gradualmente compresa, accolta, valorizzata. È lui che attacca discorso e lo fa con un imperativo: “Dammi da bere!”. Il tono può suonare brusco, ma non è il comando di un padrone; è la richiesta di un assetato. Il Signore manifesta il suo bisogno, esprime l’arsura – aveva camminato molto, era stanco, era mezzogiorno – e non si vergogna di tendere la mano per chiedere. La donna, che – come fa subito notare lei stessa – era in una posizione svantaggiata, sia perché donna davanti a un uomo, sia perché samaritana davanti a un “giudeo”, con questa richiesta viene promossa: è lei che può fare qualcosa per lui, è la donna che può portare un beneficio a Gesù o può rifiutarsi. Lui si mette nelle sue mani.

E si avvia un dialogo intenso, uno dei più lunghi del Vangelo di Giovanni. “Se tu conoscessi il dono di Dio”, attacca di nuovo il Signore, tu stessa avresti chiesto da bere “ed egli ti avrebbe dato acqua viva”. La donna, rimasta sul piano dell’acqua materiale da cui Gesù era partito, chiede ovviamente quest’acqua viva; le sembra un’ottima soluzione ai suoi problemi, sia perché le risparmia la fatica di camminare ogni giorno per due chilometri tra andata e ritorno, sia perché la solleva dall’imbarazzo di incontrare persone indagatrici e criticone. È una donna chiacchierata, vista la sua situazione affettiva, e probabilmente sceglie l’ora del mezzogiorno per andare al pozzo – invece delle ore mattutine o serali, meno afose – proprio per evitare di condividere il cammino o incontrare troppa gente. Aveva oltretutto a disposizione a Sicar, vicino a casa, due fonti; ma preferisce fare molta più strada pur di non trovarsi con persone curiose e malevole.

Ma la situazione anche con Gesù piega proprio verso questa direzione spiacevole: improvvisamente lui porta il discorso sull’argomento dei mariti, lasciando da parte quello dell’acqua. “Va’ a chiamare tuo marito”. In un estremo tentativo di far intendere che è vedova, risponde semplicemente: “Io non ho marito”. Ma il Signore mostra di conoscere bene la sua storia sentimentale: “hai avuto cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito”. A sorpresa però, anziché farne l’occasione di un rimprovero – sappiamo che Gesù era chiaro su matrimonio e divorzio – coglie un aspetto positivo nella risposta della samaritana: “hai detto bene, hai detto il vero”. È un Maestro è fatto così: è capace di trovare un lato positivo in ogni situazione, è in grado di rilevare una zona sana anche nelle condizioni più compromesse, là dove scatterebbero facilmente il giudizio e la condanna. Quella donna ha una storia affettiva disordinata e vive una relazione contraria alla legge: ma dice il vero, è sincera: e lui lo apprezza.

Al punto che lei non si sente respinta, ma rilancia il colloquio. E lo porta ad un livello ancora più profondo, quello religioso. Siccome Gesù ha dimostrato di conoscere il cuore, di essere un profeta, gli pone la domanda religiosa per eccellenza: dove si deve adorare Dio, a Gerusalemme o sul Garizim, il monte che sovrastava il pozzo di Giacobbe? Anche lì, nei paraggi, era stato costruito un Tempio, dove i samaritani, in alternativa a quello di Gerusalemme, rendevano culto a Dio. Era durato due secoli ed era già stato distrutto all’epoca di Gesù: ma i samaritani continuavano ad adorare Dio su quel monte. Il senso profondo della domanda della donna è: dove si incontra Dio? A questo punto comprendiamo la solennità della scena: sta chiedendo a Gesù dove si trova il vero Tempio e l’ha di fronte. Due capitoli prima, infatti, Giovanni aveva riportato la profezia della distruzione e ricostruzione del Tempio, conclusa con la rivelazione che il Tempio è il corpo di Gesù (cf. Gv 2,21). Ecco perché nella risposta Gesù riporta la donna all’adorazione del Padre in Spirito e Verità: non la orienta alle mura di pietra, ma alla vita intima di Dio, alla vita del Padre, dello Spirito e di Gesù stesso, che è la Verità.

Sono partiti dalla profondità di un pozzo e sono arrivati alle altezze del mistero di Dio. Sono partiti dalla sete materiale di un uomo stanco e sono arrivati alla sete spirituale di una donna ferita. I tre livelli del dialogo – materiale, affettivo e religioso – sono dominati dall’insinuazione iniziale di Gesù: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: dammi da bere!”. Alla fine la donna riconosce il dono di Dio, raccoglie l’insinuazione, proclama in città di avere forse trovato il Messia. L’anfora può rimanere ormai accanto al pozzo, abbandonata. Ora c’è ben altro nell’esistenza di questa donna: è entrato il Signore, che ne ha raccolto la sete profonda, l’ha capita nella sua fragilità, l’ha valorizzata e le ha indicato il luogo in cui Dio abita. Le ha fatto balenare un tratto della misericordia del Padre, un Dio capace di dissetare l’arsura più profonda. L’anfora non serve più: è il suo passato faticoso, contraddittorio, imbarazzante. Ora lei ha trovato la sorgente stessa di quell’amore che aveva cercato in maniera disordinata.

In questo tempo di quaresima – un tempo quest’anno così ritirato – il Signore ci dia la forza di abbandonare al pozzo le anfore che appesantiscono il cammino: la paura della malattia, l’egoismo del ripiegamento su noi stessi, la tendenza al lamento per la situazione difficile, la tentazione di trasgredire e accusare, lo scoraggiamento e l’avvilimento. E ci riempia piuttosto del suo dono, di lui stesso che è “il” dono Dio, della sua acqua che zampilla per la vita eterna: la sua parola, a cui in questi giorni possiamo attingere con maggiore abbondanza; la sua misericordia, che possiamo esprimere dalle nostre case verso le persone più colpite e provate. Le nostre città e i nostri paesi assomigliano ora ad un deserto: ma proprio nell’esperienza del deserto l’acqua viva si apprezza di più, come un “dono” che il Signore non fa mancare.