31 dicembre, omelia del Vicario generale

Cattedrale di Carpi –  Giovedì 31 dicembre 2020
Diretta televisiva Tvqui
Cari fedeli, care sorelle e fratelli
– voi qui in Cattedrale e gli altri nelle case, altrettanto attenti e partecipi –
eccoci a ringraziare il Signore per uno degli anni più strani della nostra vita. Strano però non vuol dire “senza il Signore” o “con il Signore lontano e distratto”. L’onnipotente e misericordioso Dio della vita non ha paura delle cose anche insolite e dolorose. Sul finire del 2019, quando ero appena tornato da Roma, nella gioia e nella speranza di quei mesi con voi ho più volte giocherellato con il numero 2020 sostenendo che era una cifra così liscia, così ritmata e in equilibrio, che certamente il 2020 sarebbe stato un anno facile e fortunato. In realtà questa è stata la profezia più sbagliata e assolutamente meno azzeccata nella mia vita.
1.        L’anno della pandemia
Il 2020 è stato, in realtà, l’anno travolto dalla pandemia. Cosa c’è da ringraziare? Qualche amico, anche qualche giorno fa, me lo ha detto in faccia: come farai a ringraziare nel Te Deum di fine anno? Cosa ti inventerai?
Il discorso deve farsi necessariamente sfumato. Non ringrazieremo certo per le sofferenze che sono state pandemiche e brutale e che hanno coinvolto noi, tanti nostri cari e interi popoli di sconosciuti contemporanei. Ciò per cui credo si possa ringraziare con sincerità il Signore e gli amici che hanno vissuto con noi, è che dentro molti risvolti di questi mesi, anche nelle pieghe più oscure, era attivo qualche insegnamento importante.
È di questo dobbiamo avere forse il coraggio di ringraziare. Non è facile, ma bisogna vivere ad occhi aperti, anche imparando dalle lezioni amare. I bambini hanno occhi molto grandi perché per crescere devono tenerli ben aperti e accettare di vedere tutto. Solo l’esperienza insegna la vita, ma questo insegnamento ha bisogno essenziale di essere assimilato, filtrandolo con un’accettazione personale e da un discernimento alla luce del Vangelo.
Quando ero adolescente un seminarista – appena più grandino di me di qualche anno – mi disse una cosa verissima. Sosteneva, infatti, che noi abbiamo l’impressione di crescere nei momenti di gioia, perché in quei casi sentiamo di espanderci. Nei momenti di prova, invece, abbiamo l’impressione dolorosa di essere schiacciati, rimpiccioliti e ingiustamente immeschiniti. In realtà, però, le cose non stanno così. È nelle prove che, compressi, cambiamo come il carbonio che a forza di essere pressato può diventare diamante. È nelle prove che impariamo e ci arricchiamo, anche se è nei momenti di gioia che ci sentiamo dilatare. Nei tempi di serenità, proprio allora, viene l’occasione di tirare fuori le risorse e la forza accumulata nelle prove precedenti. È la logica della seminagione cantata dal salmo: «Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, — ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni» (Sal 126,6). 
2.        Gli insegnamenti dei giorni duri e i tempi della gioia
Il primo insegnamento è che «siamo sulla stessa barca» (Papa Francesco sulla solitaria e bagnata Piazza San Pietro. Il nostro desiderio istintivo è di distinguerci e di essere una cosa speciale, “un’altra cosa”, più preziosa rispetto agli altri. Ma questa ambizione infantile è destinata a naufragare. In realtà la pandemia ha mostrato che non ci sono zone ricche e zone povere, prime classi e seconde classi, strisce sane e strisce malate, isole felici e continenti tristi. In realtà, nella vita si può soltanto colorare diversamente il pericolo che tutti corriamo: rosso, arancione, giallo, ma tutti sempre nella stessa tonalità del rischio. «Ama il prossimo tuo come te stesso»: la tua salute è la salute del tuo prossimo, la sua salute è anche la tua. La malattia di uno solo è davvero un pericolo per tutti. Non è solo internet che ci connette, ma è la realtà che ci ha creati interconnessi, spesso splendidamente, ma, non di rado, drammaticamente.
Nella pandemia abbiamo anche scoperto che siamo fragili, mortali e, in fondo, irrimediabilmente solitari. Ci è stata buttata infatti la verità che si può morire proprio da soli e che si può essere sepolti senza esser rivisti dai propri cari. Sono riaffiorati gli insegnamenti dei sapienti, che punteggiano le culture serie e anche le Sacre Scritture. «Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio» (Sal 98,12). I nostri giorni sono davvero brevi e la loro ricchezza non è la durata o la quantità dei possessi. L’unica ricchezza dell’uomo è la capacità di una profonda relazione con gli altri: alla fine resta soltanto il bene che si è donato e la riconoscenza autentica che ne è nata. È questo il vero paradiso e in parte può esser anticipato sulla terra dalla nostra speranza e dalla bontà che abbiamo diffuso: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare» (Mt 25,34s). «Quando, infatti, muore, l’uomo con sé non porta nulla né scende con lui la sua gloria. Anche se da vivo benediceva se stesso e gli dicevano: “Si congratuleranno, perché ti è andata bene”, morendo andrà con la generazione dei suoi padri» (Sal 49,18ss).
3.        Una grande sfida all’interiorità
Una grande sfida, forse la più chiara, è stata quella all’interiorità e lo si è visto nei modi di pregare verso i quelli siamo stati spinti. Non abbiamo più potuto frequentare le chiese con i ritmi ripetitivi e scontati cui eravamo abituati.  Abbiamo perciò scoperto che l’essenziale non è andare in Chiesa, ma l’intensità della preghiera. Anche nella celebrazione della Domenica del Signore, non dipende dall’esser in un certo posto con gli altri della nostra comunità, ma richiede intensità del cuore e profondità di ascolto personale e individuale della Parola di Dio.
Abbiamo poi scoperto che si può vivere la liturgia anche dall’intimità delle nostre case, con i nostri anziani e i nostri piccoli, che hanno davvero bisogno di esser con noi per partecipare effettivamente alla preghiera della Chiesa. Sono insegnamenti che possono diventare tappe decisive per una piena maturità cristiana. Abbiamo scoperto, per esempio, che la nostra Chiesa non è circoscritta dalle sue mura, ma si dilata nelle nostre case se sappiamo vivervi in maniera conforma al Vangelo. Speriamo di non perdere questa austera ma saporosa lezione.
4.        Anno della nomina del XIX Vescovo di Carpi
Pochi giorni fa, il 7 dicembre, abbiamo vissuto la gioia che Papa Francesco, dopo un anno e mezzo di amministrazione Apostolica, ha dato a Carpi un nuovo Vescovo, il diciannovesimo nella cronotassi della Diocesi. Domani l’Arcivescovo Erio Castellucci prenderà possesso della cattedra vescovile del Duomo di Carpi. Stasera gli anticipiamo ogni augurio dicendogli che lui è uno delle grandi fonti di ringraziamento al termine di questo anno difficile. Siamo contenti e pieni di speranza per il cammino che ci attende con la Chiesa modenese, ormai “nostra valida consociata ecclesiale”.
5.        Di fronte a due riprese di cammini
La celebrazione del Natale 2020 ci ha chiesto di uscire, con scatto energico, dalle tenebre, di abbandonare mugugni, depressioni, rimpianti. Anche a noi è stato notificato, come ai pastori, che il buio è ormai lacerato: «Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (Is 9,1). Come per i pastori di Betlemme, anche per noi è giunta l’ora che ce ne torniamo «glorificando e lodando Dio per tutto quello che abbiamo udito e visto» (Lc 2,20).
Questa forza ci venga dalla grazia del Signore nell’imminente 2021, nell’inizio e tutto l’anno. Carissimi amici, voi qui in Cattedrale e voi, che seguite questa preghiera dalle vostre case, un augurio sincero di buona fine e buon principio a voi. Accettiamo di remare tutti insieme.     
Amen.