S. Messa nella Giornata del Malato

Omelia di Mons. Castellucci

VI domenica del Tempo Ordinario C – Aula liturgia parrocchia di Quartirolo di Carpi – 13 febbraio 2022

(Ger 17,5-8; Sal 1; 5-6-8-10; 1 Cor 15,12.16-20; Lc 16,17.20-26)

Usiamo la parola ‘beati’ per indicare le situazioni che riteniamo particolarmente fortunate: ‘beato lui che ha tanti soldi’, ‘beata lei che ha una buona salute’…. e gli antichi la usavano anche per definire le divinità. I greci per esempio chiamavano gli dèi ‘i beati’ oppure gli ‘dèi beati’. Noi insomma usiamo questa parola di solito per situazioni in cui non si fa tanta fatica, in cui c’è una vita garantita, una situazione di privilegio, una condizione desiderata perché particolarmente elevata. Normalmente poi usiamo la parola ‘guai’ per minacciare, ‘guai a te se fai questo’, ‘guai a te se dici quest’altro’… Dobbiamo dimenticare questi due significati, quando Gesù dice ‘beati’ e ‘guai’, come abbiamo sentito oggi nel Vangelo: quattro volte ‘beati’ e quattro volte ‘guai’. Perché per Gesù ‘beati’ non vuol dire fortunati, persone che hanno avuto una buona sorte, a cui va tutto bene; per lui ‘beati’ vuol dire ‘realizzati’, persone riempite di senso.

E ‘guai’, così come lo usa Gesù non è una maledizione e nemmeno un’ammonizione, è piuttosto una commiserazione; lui si mette davanti ad alcune situazioni dicendo: ‘poveretti loro’. La parola utilizzata da San Luca nel Vangelo è la stessa che usavano i tragediografi greci per esprimere il lamento, e nelle tragedie di solito viene messa in bocca al Coro e viene tradotta con ‘ohimé’ o ‘ahimé’: è il lamento davanti a una disgrazia e ad una situazione sfavorevole. Quindi Gesù non sta maledicendo nessuno. Però, nonostante questa spiegazione rimaniamo piuttosto perplessi, perché Gesù chiama ‘beati’ coloro che vivono situazioni oggettivamente disgraziate e chiama disgraziati coloro che vivono situazioni desiderabili: chiama ‘beati’ i poveri, gli affamati, i piangenti e i perseguitati, che per noi invece sono tutte condizioni da evitare il più possibile o da correggere.

Chiama disgraziati i ricchi, coloro che sono sazi, coloro che ridono e coloro che ricevono grande stima da parte di tutti: come mai questo rovesciamento? Cosa è venuto in mente a Gesù? Per comprendere le beatitudini e i ‘guai’ dobbiamo pensare che Gesù in realtà non definisce ‘beati’ o disgraziati certi atteggiamenti, come se auspicasse per tutti la miseria, la fame, la persecuzione, il pianto: questa sarebbe una caricatura di Gesù. Gesù, semplicemente, prende atto della situazione e dice, parlando alle folle, che ci sono molti poveri, ci sono degli affamati, ci sono persone in lutto, ci sono persone perseguitate, incomprese. E sono ‘beati’ perché non sarà sempre così: ‘beati’ perché ci sarà un ribaltamento; Gesù non sta collocando la felicità nella miseria presente, ma nel riscatto futuro. Gesù non dice ‘beati voi poveri’ perché siete poveri ma: ‘perché vostro è il Regno di Dio’; non dice: ‘beati voi affamati’ perché siete senza cibo, ma: ‘perché sarete saziati’.

C’è un ribaltamento da parte di Dio, c’è un riscatto, ecco l’annuncio gioioso di Gesù: la condizione svantaggiata è destinata ad essere rovesciata dal Signore. Perché questo annuncio non sia illusione, però, è necessario che già adesso ci sia una condivisione. Per questo Gesù, allo stesso modo, dice: ‘guai a voi ricchi’, ‘guai a voi che siete sazi’, che ridete… anche in questo caso non perché ricchi, non perché sazi, non perché gioiosi ma perché vi state aggrappando a ciò che avete adesso: così non avete futuro. Gesù chiede la condivisione: quando dice ‘guai a voi ricchi’ non intende fare i conti in tasca alle persone, intende dire ‘poveri voi se non condividete quello che avete’, poveri voi se non condividete la gioia, se non condividete il cibo, se non condividete il sorriso e i beni, se non condividete la stima. Tra la situazione attuale e la promessa futura c’è di mezzo il nostro impegno: per questo tra le beatitudini e i ‘guai’ non ci sono semplicemente degli annunci teorici, ma ci siamo noi.

Il Signore ci chiede di cominciare adesso a cambiare la storia, a rovesciare le sorti di chi è nel bisogno, condividere, dare un sorriso a chi è affranto, non tenerlo per noi. Questa è la grande sfida per noi cristiani! Quando San Paolo nella seconda lettura usa la parola ‘commiserazione’, la usa proprio in relazione alla resurrezione e dice che se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, cioè se non crediamo alla risurrezione, noi siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Allora guai a noi se non condividiamo la fede: sarebbe inefficace, addirittura controproducente, parlare di resurrezione e testimoniare che crediamo nella vita oltre la morte se non cominciassimo adesso, qui, nella nostra storia presente a piantare dei semi di risurrezione, a testimoniare che la fede cambia la vita, non tanto con le parole ma con la condivisione.

Questa sfida, voi che siete qui, l’avete già accettata, la state portando avanti perché state condividendo ciò che avete con i fratelli e le sorelle più fragili; state condividendo il tempo, state condividendo le energie, l’intelligenza, le risorse interiori, spesso anche le risorse materiali. State condividendo: e vi rendete conto che quando condividiamo, guadagna sia chi dona sia chi riceve, perché chi riceve guadagna tempo, affetti, sorrisi, e chi dona guadagna la propria umanità, si rende conto che estrae dal proprio cuore le energie più belle. Questo è il miracolo del dono che il Signore ci chiede di avviare adesso, senza aspettare il Regno dei cieli, perché il Regno dei cieli è affidato anche a noi.

Chiediamo al Signore che nelle nostre relazioni ci aiuti a scoprire e a praticare sempre di più la logica del dono, dove guadagna sia chi dà sia chi riceve. Ci aiuti specialmente ad essere vicino alle persone ammalate scoprendo un po’ alla volta – questa almeno è anche la mia piccola esperienza di quando ero giovane – che vicino alle persone ammalate guadagna di più chi è sano di chi è infermo, perché si rende conto di ciò che conta davvero nella vita. Davanti alla malattia si vincono le tentazioni della superficialità, perché il malato è sulla cattedra più importante, che non è quella universitaria neanche quella episcopale, ma è la cattedra della vita. Chi sta accanto al malato impara ciò che conta davvero nella vita, il malato dona molto più di ciò che riceve.

+ Erio Castellucci