Omelia nella Santa Messa della Giornata della vita consacrata

Domenica 31 gennaio 2016, ore 18.30
06-02-2016
Il Popolo di Dio oggi è qui riunito in tutte le sue diverse vocazioni per ringraziare il Signore in modo particolare della presenza della vita religiosa femminile e maschile nella nostra Chiesa locale che in questi ultimi anni si è decisamente arricchita di nuove famiglie. Educazione, carità, mondo della sofferenza, evangelizzazione, catechesi, pastorale familiare, giovanile e vocazionale sono gli ambiti nei quali è particolarmente apprezzata la loro presenza ed il loro servizio.
        La parola che il Signore oggi ci rivolge ci aiuta a cogliere l’origine, la bellezza, la grandezza e la fecondità della vocazione religiosa e di ogni vocazione.
        Nella prima lettura è lo stesso profeta Geremia che ci racconta la storia della sua vocazione, la quale trova il suo fondamento e la sua radice nella libera e gratuita iniziativa di Dio. Da sempre, cioè dall’eternità, Dio ha pensato a lui e lo ha consacrato, cioè santificato. Il profeta, dunque, appartiene a Dio, che lo investe della sua santità. La chiamata coincide con il momento in cui Geremia incomincia ad esistere. Si tratta di una rivelazione straordinaria perché ci dice che è nel passaggio dal non essere all’essere che Dio scrive non solo il destino di Geremia, ma di ogni essere umano che viene al mondo.
        Dalla vocazione di Geremia è dunque possibile desumere una verità fondamentale che riguarda ogni persona: per essere veramente se stessi è necessario accogliere il progetto di Dio per la propria vita, progetto che rivela la ragione dell’esistere. La vita, dunque, non è da noi stessi, ma è in Dio il quale, per un’iniziativa totalmente gratuita del suo amore, la comunica a noi per renderci partecipi della sua gloria. Tuttavia, anche se nessuno di noi ha chiesto di venire al mondo, la vita che Dio ci dona comporta una responsabilità – una vocazione – che noi possiamo accogliere o rifiutare.
        Si tratta di una scelta che non è priva di conseguenze perché rispondere negativamente alla chiamata del Signore significa porsi al di fuori del suo progetto con il pericolo serio di smarrire il valore stesso della vita. Rispondere positivamente significa, al contrario, entrare in un rapporto di amicizia e di comunione con il Signore che arricchisce l’esistenza e quanto più io accetto di camminare con Lui mi accorgo che la Sua presenza corrisponde alle evidenze e alle esigenze originarie del cuore.
        Geremia, nel testo che abbiamo ascoltato, viene stabilito da Dio profeta non solo d’Israele ma delle nazioni. Si tratta di una indicazione interessante perché rivela che lo sguardo di Dio non si fossilizza all’interno del suo popolo ma si allarga a tutti i popoli. Si è chiamati dunque non per un cerchio ristretto di persone o per un luogo determinato, ma per essere al servizio di tutti, indistintamente. Voi cari fratelli e sorelle con la vostra consacrazione testimoniate alla Chiesa e ad ogni battezzato che Dio si interessa al mondo intero, che per Dio nessuno è escluso dalla salvezza, la quale consiste nella conoscenza di Cristo. Niente contraddice alla missione della Chiesa quanto particolarismi, settarismi o sterili rivendicazioni.
        Alla chiamata di Dio il profeta oppone una iniziale resistenza che nasce sia dalla consapevolezza della propria inadeguatezza e incapacità a svolgere la missione sia dalla paura di assumere un impegno per tutta la vita. In effetti, Geremia dovrà affrontare il rifiuto delle autorità e l’incomprensione del popolo con una conseguente solitudine relazionale che lo farà molto soffrire.
        Ma il profeta sarà in grado di affrontare il rifiuto, la calunnia, la persecuzione perché non va ai fratelli a mani vuote. Egli “va” con la Parola di Dio: “Alzati e di’ loro ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro”. Il profeta, dunque, è inviato a dire una parola non sua, ma ad annunciare con verità tutta la Parola di Dio. Se tradisce la sua missione allora la paura si impossesserà di Lui, mentre se vi rimane fedele la Parola di Dio sarà per lui sorgente di forza, coraggio e rifugio.
        Care sorelle e fratelli la chiamata di Dio è una grazia, è un dono che, come insegna l’apostolo Paolo, “noi abbiamo in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi”. Sì, abbandonati a noi stessi siamo poca cosa, diventiamo timorosi, dubbiosi, a volte ci lasciamo prendere dallo scoraggiamento, ma oggi il Signore torna a sussurrarci una parola che è sorgente di consolazione: Io sono pienamente coinvolto con te, sono al tuo fianco, Io sono con te per salvarti. Non avere paura.
        Alla luce di questo insegnamento, pensiamo a quante catechesi, omelie, riflessioni abbiamo pronunciato e scritto e proviamo a chiederci se in quelle circostanze abbiamo dette parole nostre o parole nate dall’ascolto, dalla riflessione e dall’assimilazione della Parola di Dio, l’unica che salva e apre la vita alla speranza, alla fiducia, al coraggio dei figli di Dio.
                Origene, in una Omelia sul profeta Geremia riporta un detto attribuito a Gesù, che non è entrato nei Vangeli. Esso dice: “Chi è presso di me è presso il fuoco”. Nella sacra Scrittura, in diversi testi, è Dio che viene paragonato al fuoco. Cristo può applicare a se stesso questo simbolo perché in Lui abita la pienezza della divinità. Tutti noi in virtù della nostra chiamata battesimale, matrimoniale, sacerdotale, religiosa ci siamo accostati al “roveto ardente” che è il Signore!
        Ebbene, il fuoco noi lo sappiamo, tra le altre cose, brucia, consuma, distrugge, purifica. Così è il fuoco della presenza del Signore. Non lascia mai le cose come sono: brucia tutto ciò che contrasta con la Bellezza, la Bontà, e la Verità di Dio… Si tratta di una presenza, quella di Dio, che spaventa perché provoca sempre una trasformazione, un cambiamento, un orientamento nuovo mentre l’uomo ama le proprie sicurezze, la propria tranquillità, diciamo pure la propria mediocrità e troppo spesso, purtroppo, anche il proprio peccato.
        Tutti noi conosciamo persone che affermano di credere in Dio o ammirano Gesù. Tuttavia quando viene chiesto loro di perdere qualcosa di se stessi, come è accaduto per il giovane ricco, si tirano indietro, perché hanno paura delle esigenze della fede. C’è il timore che seguire Gesù voglia dire perdere la propria libertà e rinunciare ad amare. Capita così anche a noi. Da una parte vogliamo stare con Gesù e dall’altra abbiamo paura di consegnarci senza riserve a Lui.
        Cari fratelli e sorelle per superare queste contraddizioni abbiamo bisogno di fare risuonare in continuazione le parole di Gesù: “Non avere paura!”. Rinunciare a se stessi, per il vero Dio, il Dio dell’amore, della vita e della libertà non è una perdita, ma un guadagno, perché significa trovare pienamente se stessi.
        Cari sacerdoti, religiosi, religiose, fedeli grazie per la vostra presenza e la vostra fedeltà al Signore Gesù. Non dimentichiamo mai che il Corpo di Cristo, la Chiesa, si edifica quando nonostante tutto, con fatica, impegno e andando contro corrente si ama il Signore e ci si vuole bene tra di noi.  Ripetiamo al Signore: “Non voglio, per difendere la mia vita, le mie posizioni, i miei piccoli poteri perdere la vita eterna che tu mi vuoi dare!”.
 
+ Francesco Cavina, Vescovo