Cattedrale di Bologna

Omelia del card. Zuppi alle esequie del vescovo Elio Tinti

Giovedì 26 settembre 2024

La beatitudine. La gioia. Quella cristiana prima di essere cristiana è molto umana. Oggi capisco e credo che tutti noi ringraziamo per la beatitudine che don Elio ha sperimentato e donato nella sua vita, lunga, che – ormai ho cambiato tutti i miei parametri! – avremmo pensato e desiderato ancora più lunga! Di San Paolo di Ravone – lo ricordo perché so quanto ne era fiero, nel ricordo di Mons. Elio Orlandi o del cappellano don Vittorio Grandi – ordinato dal Card. Lercaro nel 1960, fu cappellano a Castel San Pietro Terme e a Lizzano in Belvedere, Pianaccio e Monteacuto delle Alpi che ha portato nel cuore aiutato da don Racilio, con il quale condivideva una fraternità allargata a tanti preti. Assistente diocesano dell’Azione Cattolica nei difficili e sfidanti anni Settanta, nel 1976 fu nominato parroco di San Cristoforo a Bologna, poi rettore del seminario regionale e infine Vescovo di Carpi, la sua sposa, e poi, non a caso, alla Casa del Clero di Bologna.

Don Elio è stato felice, anche grazie ad un’arte così disprezzata che è quella di sapersi accontentare. Era beato non coltivando un’idea alta di sé – ben diverso dal buttarsi via, perché chi coltiva un’idea alta di sé non sta bene, fa star male e soprattutto non trova l’idea di sé! – perché sapeva che tutto è grazia, dono, e quindi contento per il cento volte tanto che, proprio perché mite e umile di cuore, sapeva riconoscere. Chi pensa di meritare e valere molto – basta davvero poco! – non è mai contento e finisce per non saper riconoscere il tanto che pure ha. Don Elio era contento e beato perché si sentiva molto amato, scopriva di essere utile, serviva il prossimo e la Chiesa che amava con tanto rispetto e devozione. Era prudente, dal tanto equilibrio, sapeva accompagnare anche in direzioni diverse ma sempre cercando di custodire l’essenziale, il legame con il corpo di Cristo. Aveva trovato il ristoro e lo donava perché il servo del Signore, chiunque, non deve essere litigioso (II Tim. 2 24) bensì mite con tutti, capace di insegnare, paziente. È proprio questo il ritratto di don Elio, messo alla prova da tante, tantissime difficoltà fisiche (non so quante operazioni ha dovuto subire), offrendo sempre tutto per i seminaristi e la santificazione del clero. Come dice il Libro della Sapienza (Sap. 2, 19) “è stato messo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione”. La sua è beatitudine vera e l’ha vissuta sulla terra, pegno, anticipo di quella del cielo, e non si è fatta certo incrinare dalle avversità, dai giudizi, dai confronti. Li smorzava, liberando, disarmando tante asprezze e rigorismi, aiutato sempre da tanta speranza, dalla fiducia nelle persone, che poteva sembrare troppo semplice, che in realtà manifestava il rifiuto intelligente di farsi inquinare dalla diffidenza, dalla svagatezza, dalla malevolenza che ci rende prigionieri della pagliuzza. Perché è vero, come descrive il Siracide (Sir. 3, 17), che chi compie le sue opere con mitezza sarà amato più di un uomo generoso! L’apostolo chiede con insistenza (Tito 3, 2) di non parlare male di nessuno, di evitare le liti e, quanto è vero pensando al volto e allo spirito di don Elio, di “essere mansueti, mostrando ogni mitezza verso tutti gli uomini”, perché i miti sono i piccoli, quelli che conoscono i segreti del Regno, al contrario dei dotti e degli intelligenti. (Siracide 3, 19) E Dio rivela i suoi segreti non agli “uomini orgogliosi e superbi” ma ai miti. L’apostolo invita a considerare gli altri superiori a se stesso, a farlo per amore degli altri perché chi ama mette l’amato prima di sé, pensandosi insieme. La ricerca dell’interesse personale non è mai contrapposta a quello degli altri e viceversa Ce lo insegna Gesù, che si è fatto come noi per farci come Lui. Ecco la beatitudine che don Elio ha mostrato e vissuto, gioia che nessuno può portarci via e anticipo di quella che oggi vive pienamente nella casa di felicità che è il Regno dei cieli. Beati i poveri in spirito, beati quelli che sono nel pianto, beati i miti, perché avranno in eredità la terra. E Gesù ci ammonisce ricordando che siamo – proprio noi, contraddittori come siamo – sale della terra che perde il sapore perché lo si ritiene prezioso tanto da non perderlo per niente e nessuno. Con che cosa lo si renderà salato? Perché nascondere la luce, tanto più quando siamo luce del mondo che, quindi, resta al buio senza? A che serve una lampada accesa se la nascondiamo, tenendola per noi, per paura o orgoglio? Il volto di don Elio era sempre luminoso, accogliente, sorridente, metteva a proprio agio, faceva sentire importanti, attesi. Così ha vissuto la sua luce senza nessuna esibizione protagonista, anzi, solo per far vedere attraverso le opere buone la gloria del Padre. E don Elio sapeva unire la prudenza e, quindi, il buon senso conseguente, la semplicità, la veracità, la franchezza, la gentilezza, l’affabilità, come è richiesto a tutti, incoraggianti e tesi a rispettare ogni sensibilità senza indugiare in radicalismi aspri e divisivi, con i suoi amici come d. Paolo Rabitti, don Tonino Pullega, d. Giuseppe Stanzani e i tanti – come non si faceva a non essere amici di don Elio, disarmante, fermo nella sua fede, incrollabile, equilibrata e generatrice di equilibrio, benevolo verso il prossimo? – laici che ha curato, amato, incoraggiato, come ad esempio Dora Cevenini. Lo aveva forse visto nella scelta di non imbracciare le armi del rigore quanto invece della misericordia. È stato un padre, nelle sue comunità, San Cristoforo e il Seminario regionale, nella diocesi di Carpi, con chiunque. Un Padre educatore, attento e rispettoso, padre e molto più di un amicone, ricco di suggerimenti, ma anche di correzioni; attento nel dare consigli, mai banale, sempre guardando al futuro. Cercava in ogni modo di appianare i dissapori che inevitabilmente si presentano in qualsiasi comunità (siamo contraddittori, ma se pieni del suo amore la nostra verità sarà sempre questa) con la serenità con cui affrontava questa prova e con cui raccontava quello che gli era capitato. Era sempre disponibile, in qualsiasi ora del giorno e anche della notte, secondo le necessità delle persone che lo contattavano per un consiglio, per uno sfogo, per affrontare una crisi. Non so a quanti pranzi e cene abbia rinunciato per mettere al primo posto le nostre esigenze. Ha accompagnato instancabilmente nel discernimento e nella formazione quelli tra noi che hanno fatto scelte impegnative, sostenendo vocazioni matrimoniali e anche sacerdotali. Si riempiva di tanti impegni ma trovava sempre il tempo e durante gli incontri con le persone non metteva mai fretta: in quel momento era importante quell’incontro. Cercava sempre l’accordo e trovava l’incontro anche tra vedute opposte. La sua tenerezza che derivava da una fede profonda, la sua intelligenza che scaturiva da una sapienza innata, la sua profondità che rivelava la pace interiore, hanno formato quei giovani che lo hanno sempre considerato un maestro di vita. La sua prudenza è molta sapienza umana. Sfuggiva alla rapidità dei giudizi, al rigore degli schematismi, al tempo pieni di passione ma anche di ottusità, e sapeva anche che la realtà è molto più complessa. Ha sempre offerto le tantissime sofferenze per i seminaristi e la sua risata bonaria e comprensiva, smorzando le incomprensioni e le presunzioni. Beati i miti. Hai avuto la terra, perché hai amato, e solo così si possiede. Da rettore del seminario te lo affidiamo, ti chiediamo di attrarre con il sorriso tanti nel servizio presbiterale e tanti nei vari ministeri.

Ti ricordiamo le nostre comunità, perché siano case di beatitudine, di gioia, in tanta enorme sofferenza e solitudine. Grazie Signore del dono di don Elio, padre, fratello, figlio della Chiesa e di questa nostra carissima Chiesa di Bologna. Che la mitezza e la ferma speranza che ci ha regalato possiamo restituirla con tanta gioia interiore.