Il viaggio del Papa in Iraq ha messo in soffitta lo “scontro di civiltà”
La sinfonia della fraternità
Nella musica classica, la sinfonia si suddivide, di regola, in quattro movimenti. Il primo è un Allegro, il secondo un Lento, il terzo un Minuetto e l’ultimo una Sonata. Ecco l’immagine che mi è nata seguendo il pellegrinaggio di Papa Francesco nel martoriato Iraq, dal 5 all’8 marzo scorsi. Un viaggio che – da qui il motivo principale della simbolica che suggerisco di adottare – non può essere disgiunto da altri due passaggi precedenti, che ne rafforzano il senso e lo rendono, oltre che davvero storico (come i commentatori hanno ripetuto continuamente, e a buon diritto), fondamentale per cogliere il significato e le ragioni profonde del pontificato di Bergoglio. Ma anche da un passo successivo, che ci chiama in causa tutti, facendoci uscire dalla comoda condizione di semplici spettatori di un grande e commovente evento. Andiamo in ordine cronologico. Il primo – l’Allegro, nella sinfonia – è avvenuto il 4 febbraio 2019, nello scenario fiabesco degli Emirati Arabi Uniti, ad Abu Dhabi. Dove Francesco, autodefinitosi “un credente assetato di pace”, che giocava, in gergo sportivo, fuori casa, e il grande imam (sunnita) di al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno firmato insieme un documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, innovativo non solo sul versante del dialogo cristianoislamico, ma anche nel proporre al pianeta intero la fratellanza fra tutti quale fattivo e praticabile criterio di convivenza. Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non ha potuto che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole giuntici da Abu Dhabi, che quel modello hanno decisamente reso obsoleto. Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adottare quella, ancor più impegnativa, della fraternità, termine strategico nell’esperienza di Francesco d’Assisi – nume tutelare dell’avvenimento per il suo incontro di otto secoli fa con il Sultano, a Damietta – che per primo decise di chiamare i suoi compagni fratres. Il secondo passaggio, un Lento, che necessita di tempo per essere introiettato a dovere: 3 ottobre 2020, il papa firma la sua terza enciclica, Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale. Lo fa ad Assisi, sulla tomba del santo cui si ispira. La coraggiosa sfida che essa lancia è quella di tratteggiare un’inedita architettura del mondo e delle relazioni umane, con l’obiettivo – contestuale – di vincere l’inerzia cinica che nega qualsiasi possibilità di ordinamenti diversi rispetto a quello oggi esistente. Tornando a sognare, come ripete a più riprese. E il terzo passaggio, qualche giorno fa, il Minuetto, l’abbiamo ancora negli occhi, insieme ai sorrisi di quei bambini festosi che attendevano l’arrivo di un uomo vestito di bianco e allo sguardo fisso di Al-Sistani, il leader sciita dei musulmani iracheni: un pellegrinaggio a mosaico che l’ha condotto – a dispetto del suo incedere caracollante – lungo città bibliche bagnate dal sangue di troppi martiri e rese macerie dalla coalizione multinazionale nella seconda Guerra del Golfo e poi dal Daesh, forte dell’unico ma straordinario tesoro rappresentato dalla nuda parola del Vangelo. A uomini e donne stanchi di guerra – cristiani di varie confessioni, ma anche musulmani, yazidi, sabei – Bergoglio ha chiesto di imparare a fare due cose, solo apparentemente contrapposte: guardare il cielo, inebriandosi di bellezza ed elevando il capo al Dio della misericordia, e camminare sulla terra, uscendo dalle proprie più o meno solide certezze e aprendosi alle ragioni dell’altro riconosciuto come fratello. Il tutto, nel nome di una doppia comune paternità: il patriarca Abramo, il biblico e coranico padre di popoli, e lo stesso Dio, con qualunque nome si sia scelto di invocarlo. Ci sarà tempo, auguriamocelo, per soffermarsi con calma sui discorsi del papa, che presi nel loro complesso hanno definitivamente messo in soffitta qualsiasi alibi a un presunto e inevitabile scontro di civiltà. L’unico spazio aperto, ora, è quello del quarto movimento della sinfonia, la Sonata. Che sta a noi – come Francesco ha ripetuto otto volte solo nella sua meditazione a Ur – decidere se e come interpretare, con uno spartito giocoforza lasciato alla nostra disponibilità a farci travolgere dalla follia evangelica. Sta a noi, oggi, e a nessun altro, “avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa”.