Guardare alla vita senza fare graduatorie
Conoscevo già la storia di Vincent Lambert, l’infermiere francese in stato vegetativo persistente, da tempo al centro di una battaglia giudiziale tra la madre che voleva assicurare al figlio i supporti vitali (idratazione e nutrimento a mezzo peg) e chi giudicava meglio per lui morire. Un caso simile a quello di Terry Schiavo, di Eluana Englaro e dei piccoli Alfie, Isaia e Charlie. In questo caso non c’era auto-determinazione da rispettare perché Vincent non aveva espresso alcuna indicazione di volontà al riguardo: non era un malato terminale, non era attaccato a nessuna macchina e non c’era accanimento terapeutico, ma solo idratazione e alimentazione assistita. Il caso mi interessava già come legale, come ex Presidente di Scienza&Vita, ma ha assunto una valenza diversa in questi ultimi mesi, da quando ho imparato cosa è la tetraplegia. Vincent era tetraplegico; anche mia figlia Eleonora, dopo l’ischemia midollare che l’ha colpita a maggio è tetraplegica. Vincent Lambert non è morto per una malattia. È morto di fame e di sete perché disabile grave, tetraplegico dopo un incidente. E’ stato letteralmente condannato a morte proprio perché disabile grave, perché la sua vita è stata giudicata “non dignitosa”, perché qualcuno ha deciso che per lui era meglio morire (best interest). Eleonora non è così grave, ma è stata molto grave anche lei. Anche lei non mangiava da sola, non camminava, da sola non riusciva nemmeno a grattarsi il naso, come altri ragazzi che incontro ogni giorno all’unità spinale ove è ricoverata. Ora il problema non è quanto è oggettivamente grave la disabilità, perché se si entra in un giudizio di valore, tutto diventa inevitabilmente discrezionale. Il problema è: qualcuno può arrogarsi il diritto di decidere se una vita è degna di essere vissuta? I suoi genitori si sono battuti fino alla fine, ma alcune sentenze lo hanno condannato a morte, come era già successo per Charlie e Alfie. Chi avete sentito difendere questa vita? Non ci sono stati girotondi, né proclami, né cortei, nessun “Je suis Vincent”. Questa ennesima condanna a morte per sentenza nel silenzio generale è per me ancora più inquietante. Perché una ennesima mamma non ha potuto difendere la vita (perché era ancora vita) di suo figlio? Chi può con certezza dire che non sentiva nulla? Se passa l’idea che è degna solo la vita “sana”, i malati non saranno più curati. Quanto più saranno costosi, tanto più sarà economico “eliminarli”. I malati stessi saranno autorizzati a sentirsi “meno degni” di vivere. Il punto è proprio capire se è negoziabile (o no) la dignità di una persona, di ogni persona. A prescindere. Da cosa dipende la dignità? Dall’essere bello, sano, giovane e sportivo? I disabili sono indegni di vivere per antonomasia? E i disabili psichici? E i depressi? E gli anziani? Sono tutte situazioni drammatiche che vedono compromesse le funzioni e libertà “normali”. All’unità spinale vedo ogni giorno persone con capacità compromesse. A volte per sempre, a volte non si sa. Certo c’è tanto dolore, ma quello che vedo io tutti i giorni è tanta vita, vita anche bella. Ho visto anche un matrimonio con i confetti per tutti. Vedo ogni giorno sogni possibili: Eleonora ha presentato via skipe una sua ricerca ad un congresso internazionale; Marco mi racconta estasiato della sua nuova super Mercedes e mi dice che sogna di correre in auto, come Alfredo Di Cosmo. E poi c’è Laura che ha fatto la maturità scientifica proprio qui. Chi ha diritto di giudicare se queste storie sono “meno degne” di quelle di prima, dei loro coetanei “sani”. Per fortuna, vedo tanto amore. Molto di più di quello che spesso c’è fuori da qui. Qui non importa il vestito, il modello del cellulare o il titolo di studio: siamo tutti accomunati dalla malattia e dall’amore che ci unisce ai nostri cari. Le mamme poi sono eroiche. C’è chi ha mollato tutto a 1000 chilometri, chi ha lasciato il lavoro o gli altri fi gli per stare qui giorno e notte, chi ogni giorno porta un dolcetto e un sorriso per il figlio, ma spesso anche per gli altri. Menzione d’onore anche per medici, fisioterapisti, infermieri e anche o.s.a. e tanti volontari, tutti professionali ed umani, impegnati a rendere migliori le giornate dei malati e familiari. Il punto è che chi ama guarda alla vita senza esprimere una graduatoria di valore ma semplicemente con gratitudine e affetto: questo sguardo verso la vita, fa vivere meglio tutti. Da credente, sono orgogliosa che le poche voci di sostegno della vita anche più fragile, provengano dalla Chiesa e al tempo stesso prego affinché queste voci non restino afone o isolate, ma che ciascuno di noi possa, nel quotidiano, esprimere sguardi e fatti di amore e solidarietà perché la dignità dipende dall’Amore. E per un cristiano, c’è un Dio che ci ha amato per primo e che ci ama sempre e per sempre.
Silvia Pignatti