Cari amici, siamo qui in tanti, siete venuti da tutta Italia, con fatica, portando con voi le vostre famiglie, rinunciando a una giornata al mare, o a casa, in tranquillità. Ma avete sentito che quest’appuntamento era importante, più importante di una gita, di un sabato in famiglia.
In questi giorni ci hanno chiesto mille volte perché saremmo venuti a piazza San Giovanni, perché chiedevamo agli italiani di venire. Chiediamocelo ancora una volta: perché siamo qui? Siamo qui perché abbiamo nel cuore un’esperienza fondamentale, che ci unisce: siamo tutti nati nel grembo di una donna, generati da un atto d’amore tra un uomo e una donna. Siamo tutti figli: laici e cattolici, credenti e non credenti, islamici ed ebrei, omosessuali ed eterosessuali. E’ su questo che si fonda l’unicità della famiglia: sulla capacità di tessere un filo di continuità tra le generazioni, padri, madri, nonni, nipoti, antenati, di collegare passato e futuro dell’uomo, di dargli speranza nel domani. La famiglia vuol dire legami che danno il senso della continuità temporale; ma vuol dire anche rapporti di prossimità e vicinanza, la capacità di creare le reti di parentela, cioè gli zii, i cugini, e poi i rapporti di solidarietà tra famiglie, quelli che costruiscono il senso della comunità. Spesso accusano la famiglia di essere chiusa, egoista, ma è vero il contrario: è il cuore delle relazioni tra persone, delle amicizie e delle solidarietà. Non siamo qui a esibire le nostre famiglie, a ritenerci superiori a qualcuno o a giudicare gli altri. Le nostre famiglie sono come tutte le altre: belle, brutte, così così: famiglie in cui si litiga, in cui si soffre, magari non ci si capisce, e che qualche volta si rompono. Ma sono preziose in ogni caso, perché proteggono gli individui dall’invadenza dello stato e del mercato e creano quel senso profondo di appartenenza, di consapevolezza delle origini, così necessario allo sviluppo dell’identità individuale, della personalità.
Attraverso la famiglia non si trasmette solo il patrimonio, ma soprattutto cultura, fede religiosa, tradizioni, lingua, esperienza. La famiglia è una cellula economica fondamentale, centro che ridistribuisce il reddito non secondo le capacità, ma secondo i bisogni e gli affetti; ed è il nucleo primario di qualunque stato sociale, attraverso i compiti di sussidiarietà che si assume; è in grado di tutelare i deboli, i piccoli, i malati, i vecchi, e di scambiare protezione e cura nel corso di tutta l’esistenza. Noi non diciamo che chi non si sposa non sia famiglia: lo è certamente sul piano degli affetti, e nessuno si permette di giudicare i comportamenti dei singoli. Siamo ancora legati a una vecchissimo principio: chi è senza peccato scagli la prima pietra. Ma la famiglia, così come la riconosce la nostra Costituzione, si fonda sul matrimonio, cioè su un impegno preso davanti alla collettività, un impegno forte di durata, basato sui doveri reciproci e sulle garanzie per le parti più deboli, i figli in primo luogo.
Il matrimonio è una costruzione pubblica, e per questo da sempre, in tutte le civiltà, esiste un rito di festa, in cui sono coinvolti i parenti, gli amici, la comunità. Si assumono impegni, si fanno promesse, garantite dai testimoni e sancite dalle autorità religiose oppure civili, e si dichiara solennemente al mondo che sarà per sempre. Poi certo, le cose umane declinano, falliscono, ed è giusto prevedere i modi per riparare ai danni.
Noi siamo qui, da laici, a difendere il matrimonio civile, quello della costituzione, che si può sciogliere attraverso il divorzio. Ma agli impegni presi con il matrimonio non ci si può sottrarre con facilità: le responsabilità restano, coniugi e figli hanno diritti incancellabili, anche quando il matrimonio si rompe. Il resto, le unioni di fatto, le convivenze, l’amore in tutte le sue mille forme precarie o durature, sono storie di individui, regolate da diritti individuali, che forse hanno bisogno di qualche correzione, ma niente di più.
Tutti hanno la libertà di contrarre e sciogliere legami d’amore, di vivere le proprie emozioni senza certificarle con il matrimonio, però c’è una strana contraddizione. Chi accusa la famiglia di essere un luogo di repressione che soffoca le libertà dei singoli, è spesso la stessa persona che chiede di poterla imitare, di replicarne qualche regola o rituale. Chi rifiuta il matrimonio e critica l’idea che l’amore possa essere riconosciuto dal cosiddetto ‘pezzo di carta’ è spesso la stessa persona che pretende almeno un mezzo riconoscimento pubblico, una firma sul registro, insomma proprio il famoso pezzo di carta. Ma lo ripetiamo: esiste già il matrimonio civile, che noi siamo qui a difendere, esiste il divorzio e la possibilità di rifarsi una famiglia.
Diversa è la situazione degli omosessuali, che mi sembra chiedano il riconoscimento pubblico delle loro unioni non tanto per ottenere alcuni diritti individuali, che si potrebbero assicurare con altri strumenti, piuttosto come forma di legittimazione sociale. Ma se vogliamo eliminare ogni discriminazione, se vogliamo costruire una società dell’accoglienza, dobbiamo alimentare una cultura che sappia rispettare ogni persona per quello che è. Una cultura che tuteli la dignità dell’uomo in qualunque condizione, anche se non è inserito in una categoria riconoscibile, anche se non ha nessuna forza politica a difenderlo.
In questo paese la famiglia ha resistito a lungo, nonostante l’abbandono in cui è stata lasciata per decenni da parte della politica, e nonostante sia stata forte, in alcuni momenti storici, quella che è stata definita la cultura dell’antifamiglia, che individuava nell’istituzione familiare la fonte di quasi ogni male sociale. C’è stata, e c’è tuttora, una strana guerra tra il senso comune e il luogo comune: il luogo comune è fatto da quello che vediamo alle televisioni, che leggiamo sulla stampa, che ci viene proposto da una gran parte della classe dirigente e delle élite di questo paese, da tanti attori, cantanti, registi, uomini di cultura. Il senso comune, invece, è quella resistenza del cuore che unisce tanti di noi, e ci impedisce di credere davvero, e di aderire, alla visione del mondo che viene proposta: il senso comune è l’esperienza della nostra vita e delle persone che amiamo. Questa resistenza ha sempre avuto nella Chiesa cattolica un grande punto di riferimento, lo abbiamo sentito nelle parole di Giovanni Paolo II, così semplici e chiare, e tutti noi gli dobbiamo un grazie.
Ma c’è un altro grazie che voglio dire, un grazie che nessuno dice mai: grazie a tutte le donne che sono qui, grazie all’amore, alla passione, alla generosità che le donne mettono nello sforzo di costruire e mantenere in piedi le famiglie. Grazie alle mamme, spesso sole nella loro volontà di fare figli, tanto che ormai esiste un grave divario tra il desiderio di maternità e la sua realizzazione: secondo le indagini, le donne vorrebbero in genere più bambini di quanti poi riescono a farne, perché la società glielo rende difficile, e la politica non le aiuta. Grazie per il coraggio, gli equilibrismi, i piccoli eroismi quotidiani; e grazie anche ai padri, perché noi vogliamo che la paternità resti un modello importante per gli uomini, perché vogliamo responsabilità genitoriali condivise, e non madri sole, come accade nei paesi del Nord Europa che ci vengono sempre proposti come modello di civiltà.
Vorrei chiudere con questo ringraziamento, e chiedere che il vostro applauso sia dedicato non tanto a noi che siamo sul palco, ma a voi che siete qui, e a tutti i genitori di questo paese.