Anno della preghiera in preparazione al Giubileo 2025  – Cammino spirituale d’Avvento accompagnati dalla meditazione del vescovo Erio

“Ti rendo lode, Padre” La lode

Chi sono i piccoli di cui parla Gesù? La parola greca “népios” indica normalmente un bambino ancora piccolo, che non è in grado di parlare o di parlare bene. Proprio il contrario dei “sapienti e dotti”, che Gesù infatti contrappone ai “piccoli”. Comprendiamo meglio il contrasto creato da Gesù se proviamo a dare un nome a questi “sapienti e dotti”. Gesù non prende di mira chi conosce molte cose o chi ha il dono della sapienza – anzi, nella Bibbia sapienza e conoscenza sono sempre indicati come doni di Dio – ma chi si vanta, si pavoneggia della propria cultura e della posizione sociale che ne deriva. Concretamente, Gesù pensa a certi scribi, che erano i dottori dell’epoca e si ritenevano talvolta la parte intellettualmente più elevata della società; pensa ad alcuni farisei, che sapevano a memoria le Scritture e le loro interpretazioni, ma spesso le usavano per addossare pesanti fardelli sugli altri, sentendosi così più potenti; e pensa a quei sacerdoti che, specializzati nel culto del Tempio, trascuravano poi la carità vero il prossimo, come nella parabola del buon samaritano. I sapienti e dotti sono cioè, per Gesù, quei capi religiosi che trasformano la loro conoscenza e il loro potere in un piedistallo per elevarsi altri.

I “piccoli” per Gesù chi sono allora? Può trattarsi di gente del popolo, emarginati (orfani, vedove, stranieri), peccatori (tra cui malati), bambini, donne. Ma possono essere anche persone altolocate, colte, apprezzate dalla gente, come Nicodemo, Giairo o Giuseppe di Arimatea tra i giudei, oppure il centurione romano tra i pagani. Sono questi per Gesù i “piccoli”, perché non avendo piedistalli su cui innalzarsi, oppure non utilizzandoli se li hanno, sono più disponibili al messaggio di Gesù. E per lui questi piccoli comprendono i misteri del Regno molto di più dei grandi. La lode che esce dal suo cuore – “ti rendo lode, o Padre” – riguarda qui in particolare i suoi discepoli, che non appartenevano a classi colte o nobili, ma che accoglievano il suo Vangelo. E proprio ai suoi discepoli, “i piccoli”, Gesù indica dei piccoli come modello; così ribalta il nostro modo di ragionare: noi indichiamo ai bambini come modelli certi adulti, mentre lui indica agli adulti come modelli i bambini, i “piccoli” per eccellenza: “a chi è come loro appartiene il Regno di Dio” (Mc 10,14). Indica poi come modello ai discepoli una vedova, povera, che mette solo due spiccioli nel tesoro del Tempio (cf. Mc 12,41-44). Gesù non invita mai i suoi discepoli a diventare come i grandi della terra, ma al contrario: chi è o si crede grande secondo i metri umani, si faccia piccolo.

I “piccoli” non sono coloro che non hanno cultura, ma coloro che non hanno superbia. Non conta la quantità delle conoscenze: una persona ignorante può anche essere superba, anzi spesso è proprio il rifiuto di approfondire le proprie conoscenze, per paura di dover cambiare qualcosa, che irrigidisce e inorgoglisce; chi invece si avventura nella conoscenza della realtà, se lo fa nel modo giusto, può addirittura crescere nell’umiltà, perché si rende conto di quanto resti ancora da scoprire. E infatti Gesù, versetto del Vangelo appena proclamato, sottolinea la conoscenza, non l’ignoranza: “tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. C’è una “conoscenza” vera, che non è quella di coloro che il mondo ritiene sapienti e dei dotti, ma quella di chi entra nella relazione tra lui e il Padre, attraverso la rivelazione del Figlio. (1 – continua)

+ Erio Castellucci

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Lodare Dio che si fa piccolo in Gesù

San Paolo fa eco all’esclamazione di lode di Gesù, quando scrive ai Corinti: “Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono fra voi molti sapienti dal punto di vista umano, né molti potenti, né molti nobili. Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1 Cor 1,26-29). Per Paolo, che era anche un “sapiente” dal punto di vista umano – colto, capace di padroneggiare almeno tre lingue, formato alla severa scuola del rabbino Gamaliele – l’unica vera sapienza è quella della croce: “mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini” (1 Cor 1,22-25).

Facciamo un salto di 1600 anni. Alla fine di agosto del 1662, in una casa di Parigi nella quale pochi giorni prima era morto uno dei geni dell’umanità, Blaise Pascal – acuto filosofo, grande scienziato e appassionato credente – un domestico che lo aveva assistito trovò un pezzetto di carta cucito dentro ad un corpetto che Pascal aveva indossato fino al momento della sua morte. Era una pergamena datata 23 novembre 1654, nota poi come “memoriale”, che conteneva poche righe, diventate ormai famosissime. Pascal incide in questa pergamena quella che è stata probabilmente la notte della sua conversione o di un’esperienza mistica durata un paio d’ore. Le prime frasi sono come lampi biblici: «Fuoco. Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, Certezza.

Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo». Lui, che aveva studiato a fondo le leggi della fisica, proposto nuovi teoremi e inventato un calcolatore meccanico, al punto da essere oggi considerato uno dei precursori dell’informatica; che aveva approfondito i filosofi antichi, i classici della letteratura e lo studio delle Scritture, fino a mettersi in dialogo con i maggiori pensatori del tempo… ad un certo punto sperimenta che Dio non si trova nei meccanismi della natura o nella logica dei pensieri umani, ma in Gesù Cristo: è il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”: così si manifesta a Mosè, non come l’Architetto dell’universo, l’Anima del mondo, il Motore immobile o il Principio ordinatore. Quello che ha fulminato Pascal (“Fuoco”) è il Dio di Mosè e di Gesù, quello che rinuncia ai titoli altisonanti e portentosi e si lega alle sorti umane (Abramo, Isacco, Giacobbe) scegliendo di definirsi quindi con esseri piccoli e fragili. Pascal, pur così sapiente e dotto, si è fatto “piccolo”. E ha iniziato a lodare il Dio vero; non il prodigio del proprio grande ingegno, capace di scoprire le opere di Dio, ma il prodigio di un Dio che si fa piccolo in Gesù per riuscire a prendere la misura del cuore umano. (2 – continua)

+ Erio Castellucci

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Prega chi è capace di meraviglia

I “piccoli” sono quelli che sanno stupirsi, siano essi colti o incolti, nobili o gente semplice. Il filosofo greco Aristotele scrisse che «gli esseri umani hanno cominciato a fare filosofia, ora come in origine, mossi dalla meraviglia » (Metaf. A,2,982b). Anche la fede, con la sua scienza che è la teologia, nasce dalla meraviglia: sia di fronte alla grandezza e all’ordine del creato, sia di fronte agli interventi di Dio nella storia e nelle proprie vicende personali. La preghiera di lode sgorga dalla meraviglia, è un canto che nasce dal cuore di chi vede Dio nel cosmo e nella storia. Cosmo e storia, creato ed eventi, spazio e tempo: sono dimensioni sproporzionate rispetto all’arco della nostra vita; dimensioni davanti alle quali potrebbe prenderci un senso di smarrimento. Pensiamo a quanto l’umanità ha scoperto negli ultimi secoli. A partire da Copernico e Galileo, il cosmo è apparso sempre più grande. Fino ad allora, l’essere umano si pensava abitante di un pianeta al centro dell’universo, attorno al quale ruotavano il sole, gli altri pianeti fissi nelle sfere celesti e moltissime stelle. Un quadro rassicurante, quasi domestico: tutto per noi, tutto al nostro servizio. Ma con le moderne scoperte astronomiche, poco a volta la terra è stata messa in periferia rispetto al sole; ma poi il sole stesso è risultato una delle stelle medio- piccole di un sistema, la nostra galassia, che di stelle ne ha almeno cento miliardi, se non il doppio. E poi, ancora, la nostra galassia, così gigantesca, è solo una delle galassie, forse anch’esse cento miliardi, che formano l’universo; le cui dimensioni sono assolutamente impossibile da concepire con la nostra mente. La Terra, prima così importante e vanitosa, è un granellino di polvere e noi, in essa, un atomo insignificante. Contemporaneamente, da Darwin in avanti, anche il tempo si è dilatato. Prima gli esseri umani pensavano di essere sorti poche migliaia di anni fa; ma poi hanno scoperto che sono saltati fuori in realtà alcune decine o centinaia di migliaia di anni fa (a seconda di dove si collochi l’homo sapiens), ma che il primo apparire dell’universo risale a circa 13 miliardi e 800 milioni di anni fa. Per dare un’idea, su una scala per noi abbordabile: se il bing bang, inizio di tutta l’avventura del cosmo, scoppia con lo spumante che si stappa alle ore zero del primo gennaio, noi spuntiamo solo alle 23,57 del 31 dicembre successivo… Siamo gravemente marginali, sia nei confronti dello spazio che del tempo. I Salmi della Bibbia sono zeppi di lode. Non basterebbe un’ora per citarne tutte le espressioni e sfumature. Nel solo libro dei Salmi si concentra la metà delle espressioni di lode presenti in tutte le Scritture di Israele: il verbo “lodare” (halal, da cui alleluia: lodate Dio) nell’Antico Testamento 167 volte, di cui ben 94 nei Salmi; e il sostantivo “lode” (tehillah) ritorna 59 volte, di cui 30 nei Salmi. Alcuni echi: “Esultate, giusti, nel Signore; ai retti si addice la lode. Lodate il Signore con la cetra, con l`arpa a dieci corde a lui cantate” (Sal 32); “Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la sua lode. Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino” (Sal 33); “Grande è il Signore e degno di ogni lode nella città del nostro Dio” (Sal 47); “cantate alla gloria del suo nome, date a lui splendida lode” (Sal 65)… e si potrebbe continuare a lungo, ma ricordo solo l’ultimo salmo, il 150, che interpella tutti gli strumenti musicali e raduna un’orchestra per elevare un coro di lodi a Dio: “Alleluia. Lodate il Signore nel suo santuario, lodatelo nel firmamento della sua potenza. Lodatelo per i suoi prodigi, lodatelo per la sua immensa grandezza. Lodatelo con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra. Lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti. Lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti; ogni vivente dia lode al Signore. Alleluia”. In effetti i Salmi non venivano recitati, ma cantati, suonati e ballati, per esprimere con tutto se stessi la lode al Signore. (3 – continua)

+ Erio Castellucci

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