Spiragli di speranza

La volontaria carpigiana Camilla Cattini di Mediterranea racconta l’esperienza della missione umanitaria vissuta in Ucraina

di Virginia Panzani

Artigiani di pace”. E’ con un’espressione cara a Papa Francesco che ci piace definire i volontari della delegazione di Mediterranea Saving Humans Emilia-Romagna che il 31 dicembre scorso sono partiti da Bologna alla volta di Leopoli – in ucraino “Lviv” – con sei furgoni carichi di aiuti umanitari. Fra di loro anche la ventiduenne Camilla Cattini, cresciuta nel gruppo scout Carpi 4 di Quartirolo, laureata in Design del Prodotto Industriale al Politecnico di Milano, tra i fondatori dell’“Equipaggio di Terra” di Mediterranea Carpi. Un viaggio concretizzatosi grazie alla generosità di tanti che, in tutta la nostra regione, hanno donato generi di prima necessità rispondendo all’appello di Mediterranea. Anche Carpi ha contribuito, con la parrocchia di Quartirolo a fare da punto di raccolta. A Camilla abbiamo chiesto di raccontarci l’intensa esperienza vissuta in Ucraina.

Camilla, perché hai deciso di andare a Leopoli? Come si è svolto il viaggio? E qual è stata la risposta alla raccolta promossa da Mediterranea?

Circa ogni due mesi, Mediterranea organizza missioni di rifornimento verso Leopoli, alternandole o svolgendole contemporaneamente alle missioni sanitarie. Quando ad ottobre hanno cercato attiviste e attivisti dall’Emilia Romagna, ho risposto istintivamente offrendo la mia disponibilità. Ho sempre avuto fiducia totale nel team di coordinamento della missione, che si è dimostrato estremamente professionale ed esperto. Siamo partiti da Bologna il 31 pomeriggio con sei furgoni carichi e abbiamo raggiunto la frontiera tra Polonia e Ucraina alle 23 del 1° gennaio, con una breve sosta per la notte in Slovenia. La raccolta di beni è stata estremamente positiva. Anche a Carpi, abbiamo riscontrato una risposta generosa da parte dei cittadini, un’affluenza che personalmente non mi sarei aspettata. Gli aiuti umanitari che abbiamo trasportato sono principalmente strumenti destinati alla produzione di elettricità e calore, considerando la carenza energetica e le rigide temperature invernali dell’Ucraina. Oltre a ciò, portiamo prodotti per l’igiene personale e per l’infanzia, cibo a lunga conservazione e coperte.

Quali realtà hai incontrato? E quali sono le condizioni di vita, il “clima” che si respira in città?

Fin dall’inizio della guerra, Mediterranea ha instaurato solide relazioni con diverse realtà locali di Leopoli, focalizzate principalmente sull’assistenza ai profughi di guerra. Uno dei nostri principali partner è il centro di Don Bosco, una struttura gestita dai salesiani, che ci ha gentilmente accolto e ospitato durante il pernottamento. Altri collaboratori fondamentali includono il campo profughi di Sykhiv, la Comunità di Sant’Egidio di Lviv, l’organizzazione Insight (dedicata alle tematiche lgbtqi+), e Striskipark, un piccolo campo profughi situato in un quartiere di Lviv. A Leopoli, la guerra si manifesta ancora in modo sottile: gli edifici della città rimangono intatti, e le strade sono animate da persone che si recano al lavoro, al bar, per lo shopping o semplicemente per una passeggiata. A differenza delle regioni vicine al fronte e alla Russia, le sirene suonano meno frequentemente. Anche quando suonano, poche persone cercano rifugio nei bunker.

Come puoi descriverci le persone che hai incontrato?

Il loro quotidiano e i loro sentimenti, nel logoramento di una guerra tuttora senza spiragli per una risoluzione…

La percezione della guerra si riflette nelle persone, nella loro stanchezza evidente. Esse appaiono consumate dalla propaganda nazionalista – e anche europea – che prometteva una vittoria rapida, mentre sono trascorsi quasi due anni e il numero delle vittime continua a crescere. Quel sentimento iniziale di nazionalismo e orgoglio, che si sprigionava nelle prime fasi della guerra, sembra ormai svanito. Questo cambiamento è emerso durante le conversazioni con i civili e le diverse realtà locali, i quali notano una diminuzione costante degli aiuti internazionali mese dopo mese.

C’è un aneddoto o un ricordo che porti nel cuore ora che sei tornata a casa? E che, magari, ti stimola ad uno sguardo “rinnovato” sul tuo impegno e sulle tue relazioni con il prossimo?

C’è stato un momento magico in cui tutto il team della missione Mediterranea e un gruppo di donne dal campo di Sykhiv hanno condiviso la musica, utilizzando chitarre e piccoli strumenti a percussione. In quell’istante sembrava che la guerra si cancellasse dalle nostre menti e dalle loro. Abbiamo intonato canzoni italiane e poi ci hanno deliziato con melodie ucraine. Nonostante le differenze linguistiche, siamo riusciti a comunicare le nostre emozioni reciprocamente. In quel momento eravamo sintonizzati sulla stessa frequenza, ci comprendevamo, diventando un tutt’uno, senza barriere apparenti. Una signora si è persino commossa, facendomi comprendere quanto sia cruciale, più ancora della semplice consegna di aiuti, essere presenti per le persone, non farle sentire sole e abbandonate.

Dunque, al di là degli aiuti che materialmente hai portato con Mediterranea, che cosa hai voluto o cercato di “essere” – più che di “fare” – per la gente ucraina?

Un aspetto fondamentale che ho appreso durante la missione è appunto che la nostra presenza non era limitata alla fornitura di aiuti materiali. Eravamo lì per condividere il tempo con la gente, per dimostrare che c’è qualcuno che sta dalla loro parte, che non sono soli. Questo, a mio avviso, rappresenta la forza distintiva di Mediterranea: non siamo soltanto individui che consegnano furgoni carichi di aiuti umanitari, ma siamo persone che desiderano contribuire a restituire a tutti una vita dignitosa, portando il bene che emana dalla solidarietà collettiva.