Duomo di Carpi e Duomo di Modena

Omelia nel giorno di Natale

Giovedì 25 dicembre 2025

– Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6-14; Gv 1,1-18 –

La vicenda di Gesù Cristo non è stata una commedia, ma nemmeno una tragedia. Non è stata certo una commedia. Giovanni, quando scrive “il Verbo si fece carne”, intende proprio dire che il Figlio di Dio è nato da Maria, cioè, ha preso carne e sangue da una donna, mantenendo la sua natura divina: l’Altissimo si è mescolato con la fragilità umana, per quanto possa scandalizzare dal punto di vista religioso. I primi cristiani, infatti, si sentivano imbarazzati nel credere a un Dio che prende davvero un corpo umano. Era inaccettabile sia per gli ebrei che per i greci. È vero che entrambe le culture attendevano un intervento divino, ma non potevano immaginare che scendesse Dio in persona sulla terra. Gli ebrei erano arrivati a dire al Signore, con il profeta Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19); ma era un’esagerazione retorica, per gridare il bisogno di salvezza del popolo. E i greci erano arrivati ad auspicare, con Platone, che di fronte all’impossibilità umana di trovare un senso pieno alla vita e alla morte, il divino stesso si rivelasse a noi (cf. Fed. XXXV, 85 c-d). La speranza di un intervento di Dio era dunque diffusa nel mondo antico. Ma il compimento supera ogni attesa: e Dio stesso, nel Figlio, si fa carne e spiazza tutti: nessuno avrebbe fantasticato un Dio così fragile; un Dio che viene concepito, partorito, allattato, curato; e poi un Dio che mangia, beve, dorme, e che viene perfino crocifisso, come un brigante. Un Dio così debole era inimmaginabile. Ma per i cristiani è proprio così. L’incarnazione non è una commedia, come se il Figlio di Dio avesse messo una maschera e recitato il copione, fingendo di essere uomo. Invece il Verbo si è veramente fatto carne in Cristo. Lui, che è “della stessa sostanza del Padre” – lo ripetiamo da 17 secoli nel “Credo” – è diventato anche “della stessa sostanza” di noi, esseri umani.

Vista però la morte in croce, forse la vicenda di Cristo è stata una tragedia? Sembra averne i tratti. Il protagonista, Gesù, deve affrontare tanti conflitti: con i potenti del suo tempo, che lo contrastano e lo perseguitano fino alla condanna; con le folle, che prima lo acclamano e poi si assottigliano e nel momento decisivo gridano in favore di Barabba; con i suoi stessi discepoli – per questo Giovanni dice che “venne fra i suoi e i suoi non lo hanno accolto” – al punto che lo abbandonano quanto la sorte gli è contraria. E simile agli antichi eroi, che si trovavano a combattere anche con gli dèi, arriva persino a lottare con il Padre: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Le tragedie però terminavano male, perché i protagonisti finivano per soccombere al destino inevitabile, che aveva già decretato ogni cosa. Gesù invece non ha a che fare con un destino cieco, ma con un Padre misericordioso. La sua esistenza, passione e morte comprese, è stata vissuta all’insegna di scelte libere, non di situazioni fatali. Ha scelto sempre di amare, nonostante tutto, anche quando amare implicava incomprensioni e sofferenze. E la sua fine non è stata la tomba, ma la gloria. Giovanni ce lo ha appena detto: “abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito”. Se la vicenda di Gesù non è stata una commedia, perché si è veramente fatto carne, non è stata neppure una tragedia, perché è veramente risorto.

Come si può allora qualificare la storia di Gesù? Forse come un dramma, più serio della commedia e meno triste della tragedia. Il dramma mette in campo i conflitti umani in modo realistico, senza però esasperarli, e sa trovare il senso degli avvenimenti. Non è però un dramma qualsiasi, ma un dramma che trasmette una buona notizia: “a quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Noi non siamo solo spettatori del dramma dell’incarnazione, ma se Gesù è il protagonista, noi ne siamo attori. Siamo anche noi figli nel Figlio, e così partecipiamo della vita di Cristo, la condividiamo. Le nostre gioie, lasciate a loro stesse, diventerebbero parti del copione di una commedia; le nostre sofferenze, lasciate a loro stesse, diventerebbero parti del copione di una tragedia. In lui, invece, le tristezze e le gioie trovano senso: diventano esperienze di Vangelo. Ecco la parola che meglio di tutte esprime la vicenda del Figlio di Dio: “Vangelo”, lieto annuncio di risurrezione, promessa di eternità negli spezzoni del tempo, vittoria della vita sulla morte. Quando abbiamo il coraggio di essere attori, non solo spettatori, del Vangelo di Gesù, adottando lo stile delle Beatitudini, ci rendiamo conto che nulla della nostra esistenza va perduto, né i momenti faticosi né quelli lieti. Tutto prende significato in Cristo: questo Dio così umano, questo Altissimo così vicino, Purché ci facciamo, come lui, attori di bene, umili operatori di pace.

Erio Castellucci