1ª Domenica dopo Natale e Sacra Famiglia
(Sir 3, 3-7.14-17a; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23)
Un sogno, per chi intende realizzarlo, genera sempre un viaggio. E Giuseppe vuole realizzare i sogni: il primo, decisivo, quando l’angelo gli annunciò che Maria era incinta di Gesù e chiese a lui di custodirli, invitandolo a questo viaggio pieno di incognite: prendere con sé una sposa che non è davvero sposa, un figlio che non è davvero figlio e fare da marito e da padre senza esserlo. Eppure, il sogno di Dio diventa anche il suo, e parte per questa avventura. Non avrebbe certo immaginato che Gesù, l’Emmanuele che doveva “salvare il suo popolo”, come gli aveva detto l’angelo, avrebbe avuto bisogno lui stesso di essere salvato dalla collera di Erode.
Il Salvatore deve essere salvato: e Giuseppe sogna ancora. Questa volta l’angelo, come abbiamo sentito, apparendogli dopo la partenza dei Magi, gli ordina di fuggire in Egitto con la famiglia. Era rischioso un viaggio all’estero in quelle condizioni: alla fatica di un lungo percorso, con una giovane mamma e un bimbo piccolo, si aggiungevano la sete e il caldo del deserto e il pericolo di assalti dei briganti. Se però Giuseppe non avesse seguito il sogno, il bimbo sarebbe morto vittima di Erode. E così la famigliola “si rifugiò in Egitto”, incarnando la lunga permanenza del popolo ebraico in quella terra straniera, iniziata una quindicina di secoli prima con un altro Giuseppe, il patriarca: venduto ai mercanti egiziani dai suoi fratelli ebrei per invidia, finì poi per attirare là l’intero suo clan, a motivo della carestia che flagellava Israele. Profughi a causa della persecuzione, Giuseppe, Maria e Gesù cercarono rifugio in Egitto; profughi a causa della fame, i parenti del patriarca Giuseppe avevano forzatamente emigrato.
Purtroppo, la storia si ripete: profughi e sfollati segnano tutte le epoche, compresa quella tragica nella quale operò il beato Odoardo Focherini, che contribuì a rischio della vita alla salvezza di tanti, tra cui molti ebrei, perseguitati dalla furia nazista. E si ripete al punto che oggi nel mondo le persone in fuga sono arrivate al numero di 120 milioni (cf. Rapporto UNHCR, maggio 2024): a volte inseguono il sogno di una vita migliore, altre volte fuggono l’incubo di un’esistenza penosa. Guerre, carestie, persecuzioni, disastri naturali, povertà, fame, malattie: sono le maggiori cause, spesso accavallate, dei “viaggi della speranza”, che per secoli hanno spinto anche milioni di italiani ad emigrare all’estero in cerca di una vita migliore.
“Morto Erode, ecco un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto”. Questo nuovo sogno avvia un altro viaggio, il ritorno nella terra d’origine. È curiosa la rapidissima notazione “morto Erode”, detto quasi di sfuggita, senza alcun commento. Era invece la notizia che tanti attendevano, data la ferocia di quel sovrano, che la storia ci consegna ambizioso, diffidente, sanguinario e spietato. Finalmente la Giudea si era liberata da quell’oppressore: la sua morte avrebbe meritato qualche parola di esultanza. Invece nulla: l’evangelista si limita a voltare pagina. Quasi a dire che la storia travolge prima o poi anche i tiranni che se ne sentivano i padroni; i potenti che in vita seminano rispetto nei sudditi e terrore nei nemici, che si inebriano della loro forza, che vivono nel delirio di onnipotenza, spariranno anch’essi dalla faccia della terra. E il mondo preferisce seppellirne anche il ricordo. L’angelo, dunque, invece di indurre Giuseppe all’allegria per la morte del tiranno, accende un altro sogno, lo stesso di Mosè tredici secoli prima, il sogno dell’esodo dall’Egitto. Non è più il viaggio del fuggiasco che cerca riparo, è il viaggio del pellegrino che rientra a casa. Anche il ritorno è però pieno di speranze e di insidie. Il pellegrinaggio del popolo dall’Egitto, durato quarant’anni, fu segnato da crisi e infedeltà. Non sappiamo quanto sia durato l’esodo della famiglia di Nazareth, ma anche loro provarono fatiche e paure: dirigendosi a Betlemme, Giuseppe seppe che il successore di Erode, il figlio Archelao, era crudele come il padre ed “ebbe paura di andarvi”. Il sogno trova spesso ostacoli, la speranza è insidiata: è fragile come un bambino e una giovane mamma in viaggio.
La situazione appare di nuovo bloccata, a causa del tiranno di turno, e per dissipare la paura è necessario un nuovo sogno. Non è più la Giudea, ma la Galilea la meta del ritorno: il sogno conduce là, il “viaggio della speranza” deve dunque proseguire di oltre cento chilometri, prima di approdare, finalmente, a Nazareth. Gli antichi ebrei, al ritorno dall’Egitto, si stanziarono nella regione dei padri, sottomettendo i popoli cananei che nei secoli dell’esilio l’avevano occupata, e il re Davide fissò in Gerusalemme la capitale del regno unificato. Ben diversa è la “riconquista” della sua terra da parte del nuovo Davide, Gesù, che non si mette a combattere contro Erode o Archelao, per espugnare la Giudea, ma si sposta in un villaggio ignoto del Nord, Nazareth, dove prosegue per decenni una vita nascosta. Nel suo ultimo sogno, Giuseppe non rivendica la terra dei padri, ma si immerge nella terra delle genti, la Galilea. Non è un sogno di potestà, ma di prossimità: la famiglia di Nazareth vivrà semplicemente immersa nell’umano del suo tempo. Il re Davide e la sua grande famiglia avevano vissuto nel clima della corte; il nuovo Davide e la sua famigliola vivono nel clima del cortile. Rimangono estranei agli intrighi e alle lotte nei palazzi di Gerusalemme. A Nazareth la famigliola vive del proprio lavoro, delle relazioni di paese, delle amicizie e della semplice ospitalità che offre la vita sociale in un villaggio.
Il “Giubileo della speranza”, che oggi chiude le porte delle Chiese, lasciando aperte quelle dei cuori, ha svelato le ferite di tanti popoli: esuli, profughi, sfollati, richiedenti asilo. E di tanti, forse anche tra di noi, che, pur non dovendo fuggire da condizioni economiche, politiche o ambientali insostenibili, cercano asili di senso e rifugi interiori, perché – colpiti da malattie, sofferenze, divisioni, tradimenti, delusioni – devono lasciare la terra d’origine, il loro passato ormai insicuro, e inoltrarsi su altri orizzonti, dove trovare rifugio. Per molti, l’esperienza dei pellegrinaggi a Roma o nelle proprie diocesi, ha simboleggiato la ricerca di una terra nuova, sostenuta dalla speranza di lasciarsi alle spalle conflitti e violenze di ogni tipo, per immergersi nella Nazareth della famiglia, del lavoro, dell’amicizia, di una vita di relazione fatta di gesti quotidiani accoglienti. È la “conversione” a cui siamo stati invitati nell’anno giubilare: ed è proprio questa la porta che deve restare aperta tra di noi e con tutti: la porta dell’ospitalità.








