Apertura dell’Anno Santo nella Diocesi di Carpi
Nella Cattedrale di Carpi con la solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal vescovo Erio Castellucci si è appena aperto l’Anno Santo giubilare. L’apertura della porta è stata preceduta dalla processione iniziata dalla chiesa di Santa Chiara e proseguita lungo corso Fanti. A coadiuvare il Vescovo, il vicario generale, monsignor Gildo Manicardi, e numerosi sacerdoti concelebranti. Tantissimi i convenuti da tutta la Diocesi, presenti le autorità civili, con i sindaci di Carpi e di Novi di Modena, Riccardo Righi e Enrico Diacci, le autorità militari, i membri delle diverse realtà aggregative, ecclesiali e civili. L’inizio del Giubileo cade in concomitanza con la solennità di Maria Madre di Dio, la 58esima Giornata mondiale della pace, l’80° della morte del Beato Odoardo Focherini – che offrì la propria vita per il ritorno della pace nel mondo -, e il quarto anno dell’inizio del ministero episcopale di monsignor Castellucci in Diocesi di Carpi. Hanno animato la liturgia con i canti le Corali riunite della Diocesi.
(Foto di Nicola Catellani)
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Testo integrale omelia
Maria SS.ma Madre di Dio – Giornata della Pace
Duomo di Carpi – Mercoledì 1° gennaio 2025
(Num 6,22-27; Sal 66; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21)
Sembra che la Liturgia della Parola di oggi ponga l’accento su situazioni passive e ce le proponga come dei modelli. La prima lettura riporta la benedizione di Aronne, resa familiare da San Francesco che la pronunciò su Frate Leone; in questa benedizione il popolo non deve fare nulla, ma solo accogliere: i sacerdoti invocano benedizione e custodia sugli israeliti, chiedono che il Signore rivolga loro il suo volto, faccia grazia e conceda pace. Il popolo è semplice destinatario, non compie nessuna azione.
Nella seconda lettura, pochi versetti della Lettera ai Galati, Paolo accentua questa impressione di passività, usando per sei volte la parola “figlio”; due volte si riferisce a Gesù come Figlio di Dio e quattro volte si riferisce a noi, che in lui siamo figli adottivi dello stesso Padre. “Figlio” è in un certo senso la parola più passiva che esista: indica semplicemente chi ha ricevuto la vita, senza averlo scelto. Uno può scegliere di essere marito o moglie, papà o mamma, ma non di essere figlio, perché quando sa di esserlo, lo è già da tempo. È l’unica parentela che accomuna tutti, per il fatto stesso di essere concepiti e nati. La passività, nel ragionamento di Paolo, non risparmia nemmeno Gesù, il Figlio di Dio “nato da donna, nato sotto la Legge”: venendo al mondo, cioè, si è sottoposto alle regole della natura e del tempo, né più né meno di ogni altro essere umano.
Nel Vangelo, poi, la nostra attenzione si focalizza su un neonato “adagiato su una mangiatoia” – qui è passiva la stessa forma verbale usata da Luca – e dalla sua giovane madre, Maria, che di fronte alla visita dei pastori “custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”: un’opera di interiorizzazione che certamente non si può definire “attività”, perché è semplicemente lasciar entrare nel cuore gli avvenimenti esterni.
Il messaggio scelto dalla Chiesa nella liturgia di oggi, Solennità di Maria Madre di Dio e Giornata Mondiale della Pace, è provocatorio: la pace, la grazia, la benedizione… insomma, l’essenziale per vivere da figli di Dio, va accolto come dono e non può essere conquistato come merito. Questa passività è preziosa: è l’anima di ogni nostra attività. Se noi possiamo, anzi dobbiamo operare la pace, è in forza dell’accoglienza della pace nel nostro cuore. Ecco perché i segni della pace sono così poveri, così fragili, così passivi: un figlio nato da donna, un bambino adagiato nella mangiatoia, una madre pensosa; scene che ci portano dentro una casa, in una stalla, negli ambienti domestici.
Divenuto adulto, quel figlio un giorno ci regalerà la pace, precisando che “la sua” pace, non è come quella che “dà il mondo” (cf. Gv 14,27). Il mondo, cioè l’umanità che confida in se stessa, non è in grado di dare la pace; al massimo, nelle relazioni tra individui, gruppi sociali o nazioni, arriva a stipulare tregue e trattati; quando poi non instaura quella falsa pace che impone il silenzio e addormenta gli animi davanti alle ingiustizie: la falsa pace, cioè, della dittatura e dell’indifferenza, che assomiglia a quella del cimitero, dove nessuno fiata perché non c’è più vita. No, la pace che ha portato Gesù è una pace armata: “non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34); solo che la spada non è contro qualcun altro, ma contro il male, contro l’egoismo che si annida nel nostro cuore. Lo spiega bene San Paolo, quando scrive che la nostra battaglia non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro gli spiriti del male (cf. Ef 6,12).
La pace è dunque frutto di una lotta contro il male; la pace si alimenta accogliendo la benedizione di Dio, in quella passività preziosa di chi come Maria si lascia colmare il cuore dalla grazia; e la pace si esprime poi nella lode. Sia il Salmo, sia il Vangelo, indicano proprio nella lode la risposta alla benedizione di Dio. Nel Salmo, dopo avere ripetuto “ci benedica Dio”, abbiamo continuato: “ti lodino i popoli, Dio, ti lodino i popoli tutti”; e il Vangelo informa che i pastori “se ne tornarono glorificando e lodando Dio”. La risposta adeguata a Dio che benedice è l’uomo che loda. Ma sarebbe una lode astratta e finta, se non partisse dalla lotta contro le potenze del male, dalla lama della spada che taglia via l’egoismo.
Papa Francesco, nel Messaggio per questa Giornata della Pace, fotografa con chiarezza le situazioni patologiche del mondo, invitandoci ad ascoltare il grido di Abele, dei tanti Abele di oggi: “Si fomentano e si intrecciano sfide sistemiche, distinte ma interconnesse, che affliggono il nostro pianeta. Mi riferisco, in particolare, alle disparità di ogni sorta, al trattamento disumano riservato alle persone migranti, al degrado ambientale, alla confusione colpevolmente generata dalla disinformazione, al rigetto di ogni tipo di dialogo, ai cospicui finanziamenti dell’industria militare. Sono tutti fattori di una concreta minaccia per l’esistenza dell’intera umanità. All’inizio di quest’anno, pertanto, vogliamo metterci in ascolto di questo grido dell’umanità per sentirci chiamati, tutti, insieme e personalmente, a rompere le catene dell’ingiustizia per proclamare la giustizia di Dio”.
Che cosa possono un bambino adagiato sulla mangiatoia e una madre pensosa di fronte agli attentati contro la vita e la dignità umana? Un bambino e una mamma sembrano armi spuntate, scariche e già destinate in partenza a soccombere. Eppure, sono le armi vincenti: quanto più l’accoglienza della vita, la riflessione e la lode, diventano stili di singoli, comunità e popoli, tanto più sarà combattuta l’ingiustizia e si affermerà la pace vera. È un sogno? Forse: ma l’alternativa è l’incubo della morte. Il Giubileo, che oggi apriamo anche nella nostra Diocesi, ci domanda di essere “pellegrini di speranza”: umilmente, ma decisamente, ci incamminiamo, a partire da noi stessi, sull’unica strada che promette vita: la costruzione della pace inaugurata dal Principe della pace (cf. Is 9,6), il Figlio di Dio nato da donna.