Il male e la Provvidenza
10 febbraio 2021
Discorso dell’Arcivescovo Erio Castellucci al personale sanitario dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Modena
Ringrazio di cuore tutti, a partire dal direttore dott. Claudio Vagnini, per aver voluto mantenere l’incontro annuale della Giornata del Malato. Incontro che quest’anno cade in un contesto dolore e gratitudine insieme. Il 10 febbraio dello scorso anno, in un’occasione come quella di oggi, il covid-19 non aveva ancora questo nome e la pandemia non era stata ancora battezzata; il virus si chiamava “cinese” e ci si illudeva – o almeno si sperava – che in Italia non sarebbe arrivato. Pochi giorni dopo si aprirono le porte del contagio e si rovesciò su tutto il mondo la crisi sanitaria gravissima che stiamo ancora attraversando.
Miliardi di parole e milioni di pagine si sono spese in questi dodici mesi.
Non c’è molto di nuovo da dire, se non esprimere ancora una volta – ma non è mai abbastanza – la vicinanza a chi è colpito, personalmente o nei suoi familiari e amici, e la riconoscenza a chi si spende per alleviare le sofferenze: primi tra tutti voi, medici, infermieri, personale sanitario.
Propongo semplicemente qualche spunto a partire dalle pagine che in molti, credo, abbiamo riletto o riascoltato nei mesi scorsi: i capitoli dei Promessi Sposi sulla peste del 1629-1630. È chiamata “la peste manzoniana” o anche “la peste di Milano”, ma in realtà riguardò non solo il capoluogo lombardo, ma l’intera Europa, e colpì duramente anche Modena. Si stima che all’epoca la nostra città contasse una popolazione urbana di circa diecimila abitanti e che ne morisse circa il quaranta per cento. Come sappiamo, questa tragedia portò alla costruzione della Chiesa del Voto. E anche Modena aveva il suo lazzaretto, anzi ne aveva almeno due, entrambi fuori le mura: uno attorno alla Chiesa, appunto, di San Lazzaro; nell’attuale Largo Garibaldi, oltre la Chiesa di Sant’Agostino.
Manzoni concentra nel suo romanzo, si può dire, tutti i “mali” che l’umanità vive, a cominciare dai tre più impressionanti: la peste, la fame e la guerra, dai quali – non a caso – si chiedeva la liberazione, nelle “rogazioni” di un tempo: a peste, fame et bello libera nos Domine. Questi tre mali, del resto, erano spesso concatenati: la fame indeboliva la gente e la rendeva più vulnerabile alle malattie da contagio, considerando anche le situazioni igieniche tante volte disastrose; e Manzoni ricorda la carestia che colpì Milano dal 1628 (cf. cap. XII), per la scarsità dei raccolti ma anche per gli sperperi dovuti alla guerra in corso tra Francesi e Spagnoli, che era scoppiata l’anno prima e che aveva come teatro il Monferrato e la Lombardia; il terzo male, la peste, arrivò dunque regolarmente pochi mesi dopo, a partire dalla fine del 1629.
Nel quadro di questi grandi mali, Manzoni ne colloca alcuni più piccoli – si potrebbero definire “domestici” – ma che, incrociati con i primi tre, rappresentano un intreccio sempre attuale. Il romanzo comincia con una prevaricazione, oggi diremmo un atto di “bullismo”: il signorotto don Rodrigo esercita per capriccio un abuso di potere, scommettendo che riuscirà a soffiare Lucia al promesso sposo Renzo. Questo male, davvero “banale”, causa e svela una serie incredibile di altri mali.
Svela prima di tutto il male della meschinità, impersonato da don Abbondio, il parroco codardo dei due promessi sposi; uno dei personaggi che rimane tale e quale dall’inizio alla fine, che non si redime nonostante tutte le prove che attraversa. Come a dire che il male di solito chiamato “omissione” è profondamente radicato nell’essere umano, ed esprime più di tanti altri mali egoismo, istinto di auto-conservazione, ripiegamento su di sé.
Compare poi più volte un altro male, la rabbia, che colpisce ripetutamente Renzo; di per sé è un giovane semplice e tranquillo, ma davanti ai raggiri dei potenti, prima di don Abbondio e poi di don Rodrigo, medita vendette anche molto violente. E Manzoni osserva: «I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui portano gli animi degli offesi» (cap. II). Il male scatena altro male, anche nel cuore dei migliori.
Non mancano poi tanti altri personaggi mediocri, nel romanzo, che interpretano diversamente la meschinità, il compromesso vile: come il dottor Azzeccagarbugli e il Provinciale dei Cappuccini. O personaggi cattivi perché vittima di altri, che hanno esercitato violenze verso di loro, come la monaca di Monza, costretta dal padre a farsi suora, che Manzoni definisce “sventurata” (cap. X). È un’altra catena, molto nota: chi subisce il male, cerca di risarcirsi facendolo agli altri.
E vengo finalmente – ancora pochi minuti – al racconto della peste, che occupa gli ultimi capitoli del romanzo. Manzoni documenta come sia stato faticoso, per i milanesi, arrendersi all’idea che era tornata la peste, dopo quella cosiddetta “di San Carlo” del 1576. Non ci volevano credere (regnava tra la gente una «stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste»: cap. XXXI) e, con l’implicita complicità delle autorità politiche, interessate più alla guerra che al contagio, indugiarono a lungo prima di correre ai ripari, ormai troppo tardi. Anzi, una volta preso atto della peste, i cittadini cominciarono a credere agli “untori” e a cacciarli, provocando anche dei morti, a causa della superstizione e delle ipotesi di complotto: «arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste, per mezzo di veleni contagiosi, di malìe» (cap. XXXI). Così, osserva amaramente Manzoni, ci furono «quelli che pensarono fino alla fine, e fin che vissero, che tutto fosse immaginazione» (cap. XXXII).
Le sole due categorie che si distinsero positivamente, per Manzoni, sono le autorità sanitarie e i frati Cappuccini insieme ai parroci della città. La Sanità era guidata da un medico ottantenne, Ludovico Settala, che, avendo già vissuto la peste precedente, si rese conto subito della gravità della situazione; ma subì, insieme ad altri medici, molte offese e anche dei tentativi di aggressione popolare. E i Cappuccini, guidati dal quarantasettenne, padre Felice Casati, furono incaricati dal tribunale della Sanità di prendersi cura del lazzaretto, cosa che fecero anche i parroci. Medici e religiosi furono, anche in quella occasione, le due categorie più colpite, quelle che contarono il maggior numero di morti sul campo.
Un altro protagonista positivo, il Card. Federigo Borromeo, in questo caso non ne esce bene del tutto. All’inizio, infatti, si mosse con energia: «appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette» (cap. XXXI). In questo viene lodato. Ma pochi mesi dopo, cedendo ad una richiesta popolare avvallata dalle autorità (i “decurioni”), dopo una resistenza iniziale, fece organizzare una processione, portando per la città il corpo di San Carlo: e l’11 giugno 1630 la processione di svolse, a partire dal Duomo, con una fila ininterrotta di persone per tutta la città, dalle otto del mattino alle due del pomeriggio. Manzoni così descrive gli effetti di quel rito solenne: «il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presuntuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima» (cap. XXXII).
Manzoni lascia ai lettori, a noi, le conclusioni. Io le affido proprio a padre Felice Casati, che nella sua predica a cui partecipa anche Renzo, nel mezzo del Lazzaretto, si pone la domanda delle domande, alle quali in realtà non c’è risposta, se non quella che dà il frate: perché Dio avrà permesso questa sofferenza, si chiede dunque il padre Cappuccino, «se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione e infervorato dalla gratitudine? Se non a fine che, sentendo ora più vivamente che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? Se non a fine che la memoria de’ nostri patimenti ci renda compassionevoli e soccorrevoli ai nostri prossimi? Questi intanto, in compagnia de’ quali abbiamo penato, sperato, temuto; tra i quali lasciamo degli amici, de’ congiunti; e che tutti son poi finalmente nostri fratelli»… (cap. XXXVI). È la famosa “Provvidenza” manzoniana: noi non sappiamo perché Dio permetta il male, ma sappiamo che dal male Lui e noi, insieme, possiamo ricavare qualche bene, secondo le tre grandi parole pronunciate da padre Felice: la gratitudine verso chi si è speso, il senso della vita come dono, mai scontato, e la consapevolezza che tutti siamo fratelli. È questa la speranza che ci può aiutare a ripartire dopo un’esperienza così drammatica.