Cattedrale di Carpi
Solennità di Cristo re dell’Universo, anno A
Conferimento del lettorato a Francesco Cavazzuti e Davide Lovascio
20 novembre 2020
Omelia di S. E. Mons. Erio Castellucci
Amministratore Apostolico della Diocesi di Carpi
Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1Cor 15,20-26.28; Mt 25,31-46
“Separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre”. Non è una novità, nel Vangelo di Matteo, il richiamo di Gesù ad un giudizio finale che discrimina buoni e cattivi. Nella parabola del buon grano e della zizzania, aveva rimandato la separazione alla mietitura finale (Mt 13,24-30); nella parabola delle dieci vergini la separazione tra le sagge e le stolte avviene dopo l’arrivo dello sposo (cf. Mt 25,1-13) e in quella dei talenti, il padrone al ritorno distingue i due servi buoni, che li avevano raddoppiati, da quello malvagio, che l’aveva seppellito (cf. Mt 25,14-30). Nessuna sorpresa dunque, oggi, nell’apprendere che alla fine della storia avverrà la separazione delle pecore dalle capre. Gesù la spiega con l’immagine del pastore che alla sera raduna il gregge in vista del riposo notturno; e sembra che in un gregge misto, formato da pecore e da capre, le pecore, avendo un mantello di lana, dormissero all’aperto, mentre le capre venissero condotte dentro grotte e caverne. Alcuni artisti hanno rappresentato questa scena accentuando il colore scuro delle capre, in contrasto con il bianco delle pecore.
Perché questa discriminazione finale? Nei secoli scorsi i predicatori insistevano sulla severità del giudizio, accentuando i toni della condanna; oggi, al contrario, i predicatori sono imbarazzati nel presentare un giudizio, una divisione finale tra buoni e cattivi. Credo che il Vangelo vada preso così com’è. Alla fine della nostra vita e dell’umanità intera ci sarà un giudizio. Chi elimina la distinzione finale tra bontà e malvagità, esalta solo apparentemente la misericordia divina; in realtà rischia di legittimare i comportamenti egoistici e violenti. Se non ci fosse un giudizio finale, un riscatto per i buoni e una censura per i cattivi, tanto varrebbe agire in questa vita pensando solo a se stessi e calpestando gli altri; e alla fine della storia l’avrebbero vinta i violenti e i persecutori, mentre le vittime e gli sfruttati resterebbero schiacciati per sempre.
Ci sarà, dunque, una divisione finale tra pecore e capre. Però è chiaro che il giudice è il Signore e non siamo noi. Nessun essere umano conosce il cuore di un altro essere umano e si deve, anzi, arrestare alla soglia della coscienza altrui. Solo Dio ha il diritto di varcare la porta del nostro cuore. E siccome Dio è misericordia, noi possiamo sperare che nessun essere umano si presenti al giudizio completamente nero, interamente malvagio. Non lo possiamo escludere, ma dobbiamo resistere alla tentazione – così diffusa – di rubare il mestiere al giudice universale, anticipando quaggiù la distinzione tra buoni e cattivi e facendoci noi stessi giudici implacabili dei nostri fratelli. È pensabile, come affermava Benedetto XVI, che tutti un giorno ci presenteremo al giudizio divino in parte buoni e in parte cattivi (cf. Enc. Spe Salvi, 2007, n. 46); le pecore e le capre dunque saranno dentro ciascuno di noi e il giudizio discriminerà tra il bianco e il nero che abitano nel nostro cuore.
Carissimi Francesco e Davide, diventando lettori in cammino verso il presbiterato, voi vi fate ministri della parola; di questa parola severa e misericordiosa insieme, di questa parola di vita eterna che non si lascia annegare nelle parole di vita terrena, di questa parola più attuale di ogni informazione che viaggia sulla rete in tempo reale. È una parola che entra nel cuore e supera la gabbia del tempo; è una parola capace di riempire un’intera esistenza. Vi siete innamorati del Vangelo e avete capito che vale la pena di impiegare tutte le energie per annunciarlo, perché non c’è parola paragonabile che possa dare senso alla gioia e al dolore, sostenere la speranza e spargere la pace.
Una pace certo scomoda, perché passa attraverso il servizio all’affamato e all’assetato, al povero e al forestiero, al malato e al carcerato. È una parola alla quale non bastano le parole, ma richiede dei fatti: Gesù aveva detto: “non chi dice Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del Padre mio” (cf. Mt 7,21). E questi fatti sono puntualmente elencati, per ben quattro volte nel Vangelo di oggi, perché li impariamo a memoria. La Chiesa ne ha tratto le “opere di misericordia corporale”, come un programma concreto e quindi facilmente verificabile. Esistono delle tradizioni antiche, pre-cristiane e pre-bibliche, che fissano una sorta di esame finale basato sulle opere. Già più di quattromila anni fa nell’antico Egitto spuntò l’idea che la sorte ultraterrena per i singoli fosse tanto più felice quanto più erano stati giusti nella vita terrena. E alcune delle opere che l’anima del defunto doveva attestare al tribunale di Osiride, per ricevere il premio, sembrano anticipare quelle evangeliche: l’anima dichiarava che in vita non ha rubato, non ha ucciso, non ha usato violenza, non ha provocato liti. Per Gesù però è insufficiente quello che bastava a Osiride: lui non chiede solamente di evitare il male, ma di fare il bene.
Tra i rabbini del tempo di Gesù si incontra un detto simile al Vangelo di oggi. “Dio si prende cura dei poveri, dei malati e dei sofferenti: e così l’uomo deve comportarsi, secondo lo stile di Dio”. Era un invito ad imitare la premura del Signore per gli ultimi. Ma Gesù non dice neppure solo questo, non afferma semplicemente che Dio deve essere imitato aiutando il povero; lui si mette dalla parte del povero. C’è allora un altro detto rabbinico, molto vicino al Vangelo: “Dio dice: se date da mangiare ai poveri, vale come se aveste dato da mangiare a me”. Qui siamo davvero ad un passo dalle parole di Gesù, che però fa il salto decisivo: non “come se l’aveste fatto a me”, ma proprio “l’avete fatto a me”. Gesù, il re, il giudice, si mette nella carne degli ultimi; il suo non è un paragone, ma un’identificazione. Ecco dove arriva l’amore: a condividere tutto, a farsi ultimo. Ed è proprio qui che lo possiamo incontrare, nelle ferite e nelle povertà materiali e spirituali; nelle persone accantonate, in quelle che non fanno gola a nessuno.
Carissimi Davide e Francesco, siete ministri di una parola difficile, perché non è rimasta sulla carta, ma si è fatta carne. Il vostro compito, appassionante, è di farla camminare là dove sembrano vincere le parole dei violenti, degli arroganti e dei giudici improvvisati che vedono la pagliuzza nell’occhio dei fratelli e non la trave nel proprio (cf. Mt 7,1-5).
+ Erio Castellucci