La morte improvvisa di una persona più o meno conosciuta e stimata porta con sé lo stupore, la meraviglia, e scatena le reazioni più o meno prevedibili e i commenti più o meno originali. Lo è stato anche con don Roberto Bianchini, sacerdote di Carpi appena scomparso. Eppure, il senso cristiano del morire dovrebbe farci riflettere un poco tutti al di là delle considerazioni personali, dei ricordi piacevoli e spiacevoli del vivere.
Anche in occasione della visita alla salma di don Roberto, si è ripetuto per chi scrive, la formula di saluto più comune: “Come va la vita?”. L’espressione è meno banale di quanto possa sembrare, e sarebbe semplicistico ricondurla a una domanda sulla salute. Riguarda, più propriamente, lo stato di salute della vita, il suo funzionamento. In queste occasioni, tutto sta ad accertare che cosa s’intenda per vita. Ci si riferisce esclusivamente allo stato fisico, agli affari, alla carriera, agli incarichi, oppure si pensa al significato, alla qualità, ai valori, agli ideali? C’è chi “riesce” nella vita. Ma non è detto che la sua sia una vita “riuscita”. I medici raccomandano, a una certa età, periodici check-up. Ma è la vita intera che andrebbe sottoposta a una seria revisione. E si tratta di una faccenda nostra, che non possiamo delegare gli altri. Penso che per trarre e recuperare, magari, il significato autentico della vita, alla luce di una vita come quella sacerdotale di don Roberto, possiamo fissare alcuni elementi.
Il primo: la necessità di essere benedetti. La benedizione viene data “in nome di Dio”. Il sacerdote è mediatore ordinario della benedizione che viene dall’alto. Ripuliamo pure la benedizione di ogni incrostazione superstiziosa e da qualsiasi interpretazione in chiave magica, ma non svuotiamola del suo valore più genuino e tradizionale. Non c’è da vergognarsi ad andare dal prete e chiedergli una benedizione, e non solo a sollecitare una raccomandazione o un appoggio. La benedizione più che in un gesto, consiste nel “porre il nome di Dio” sulla persona. Il volto conciliante di Dio, oltre a darci pace, ci impegna a svolgere opera di “rasserenamento” attorno a noi, eleminando prima di tutto dalla nostra faccia i tratti dell’aggressività, le ombre dell’ostilità e dei risentimenti, la durezza, le ripugnanze.
Il secondo: il senso del debito. La vita di un cristiano e di un sacerdote, in particolare, è contrassegnata dal senso di gratitudine per ciò che ha ricevuto; non basta chiedere, occorre essere disposti a dare. Facilmente accusiamo la vita di essere inadempiente nei nostri confronti, di non mantenere le promesse, di mostrarsi avara e perfino ingiusta e cattiva con noi. E noi, siamo proprio sicuri di rispettare gli impegni nei riguardi della vita? Come ci comportiamo con essa? Forse le diamo corse affannose, stordimenti, chiacchiere insulse, banalità, stupidaggini, e le neghiamo il meglio di noi stessi. Non è la vita che viene meno, siamo noi che manchiamo alla vita. Non atteggiamoci sempre a creditori insoddisfatti. Cerchiamo di acquisire la consapevolezza di essere anche e soprattutto debitori ritardatari, distratti.
Il terzo: la lode come antidoto a una vita normale. La lode presuppone la vigilanza, la sobrietà. La lode e l’azione di grazie si pongono sul versante opposto rispetto alla protesta, i mugugni, le rivendicazioni astiose. Lode che implica la capacità di meravigliarsi. Lo scricchiolio, in un cuore, si verifica solo quando viene a cessare la meraviglia, si interrompe la lode, si smarrisce il gusto della bellezza. Che bello sarebbe, se ricordando don Roberto e i nostri sacerdoti che ci hanno accompagnato, ci aprissimo, nonostante i se e i ma, a un sorriso di stupore scoprendo la bellezza di una vita “riuscita”.
Ermanno Caccia