Editoriale del n.16 del 26 aprile 2015

Inutile piangere vite non nostre?
“Lo sai perché comunque sono venuto qui?”, mi dice un eritreo seduto sul guard-rail come su un mondo:” Perché nel mio paese ero uno schiavo, un vero schiavo fin da bambino, arruolato a spaccare pietre. Qui almeno sono vivo…”. All’indomani del naufragio del 19 aprile il giornalista Domenico Quirico si è recato nel catanese, con in testa la domanda che in fondo tutti ci facciamo. Se, e perché, valga la pena affrontare quel viaggio; e per andare dove.
 
Siamo tutti dentro la grande migrazione del terzo millennio, più grande di quelle che il Mediterraneo ha già visto in altri secoli. Coloro che si muovono, a centinaia ogni volta, e muoiono nel nostro mare, sono ormai popoli interi, parti del mondo, dell’Africa soprattutto, o del vicino Medio Oriente, in piena guerra o travolti dal terrore. Nuove e complesse identità di popoli si formano in questi viaggi. Le migrazioni assomigliano sempre più a invasioni, in cui diventa invisibile il volto delle persone, non percepita la sofferenza, non ascoltato il grido silenzioso.
Una frase tra i tanti commenti più o meno scandalizzati su facebook ci ha colpito particolarmente. ‘È inutile piangere vite non nostre’, scrive una persona qualunque, in un post qualunque nel dibattito di questi giorni. Siamo così tanto aggrediti da immagini e notizie di morti ‘ siano essi legati agli sbarchi, alle persecuzioni dei cristiani, all’Ebola ‘ che scatta, quasi istintivo, un allontanamento. Cercare di proteggersi dagli eccessi può essere comprensibile, ma non commuoversi non è accettabile. Nonostante le accuse, fondate, che vanno mosse a chi ha responsabilità dirette ‘ la politica, l’Italia, l’Europa e via discorrendo.
‘No, nessuno ci vuole qui, sono uno straniero e potrò esser contento che non mi si scacci in un campo peggiore ‘ riporta il giornalista ‘, mi guardo indietro, dove vivevo io sono solo rovine’ questo è già un paradiso per sperare un momento’.
Il timore che tra la folla anonima possa nascondersi un nemico, ci impedisce di riconoscere i fratelli in umanità. Ma l’unica risposta possibile a chi, a queste notizie, oppone la distanza e il distacco, è che provare dolore, compassione (e questo senza lasciarsi andare all’emotività fine a se stessa), è l’unica via che ci mantiene, noi per primi, umani.
‘Rivedere questi uomini che si muovono, parlano, hanno rapporti, storia, drammi, la vitalità, la forza, l’istinto è come ritrovare la vita del creato’, scrive Domenico Quirico. ‘Bisognerebbe, per capire, raccontare tutto il dolore del mondo, un mondo di sconfitti a cui stiamo attenti come a una epidemia. Mentre ‘ conclude ‘ nasconde l’unico vero tesoro’. 
 
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