Editoriale del n. 16 del 28 aprile 2013

In vista del 1° maggio riflessioni sulla crisi


Alimentare la speranza
di Nicola Marino – direttore Ufficio diocesano per la Pastorale sociale e del lavoro


Nella Bibbia si racconta del sogno premonitore che fece il Faraone, che Giuseppe, figlio di Giacobbe, interpretò, diventando così il favorito del sovrano. Nel sogno, sette vacche grasse e di bell’aspetto, vengono divorate da sette vacche magre e scarne. Il significato del sogno, svelato da Giuseppe, è che, a sette anni di abbondanza nei raccolti, seguiranno sette anni di carestia. Il ragazzo consiglia così al sovrano di costituire dei commissari sul paese per prelevare il quinto delle raccolte del paese durante i sette anni d’abbondanza, e di immagazzinare il grano in vista dei sette anni di carestia. Il faraone, colpito dalla saggezza di Giuseppe, lo nominerà poi viceré, per amministrare il paese in vista del delicato scenario che si profila.


La crisi economica sembra senza fine. Nel 2008, al suo inizio, in tanti speravano fosse una parentesi. Ma ora, cinque anni dopo, si ha l’impressione di non aver ancora toccato il fondo. I dati drammatici relativi all’occupazione, alla chiusura di imprese, così come le ricadute sociali fatte di povertà, disagio, suicidi,  ci ricordano continuamente che viviamo in tempi di vacche magre. Non è una novità, nella storia umana. Ma, per i tempi moderni, è certamente una situazione diversa da altre crisi del passato che ha a che vedere con cambiamenti complessivi del nostro sistema economico. Una crisi che continua a suscitare in ognuno di noi sentimenti a tinte forti.
Impossibile non provare rabbia, di fronte alle mille occasioni perdute in questi anni per mettere mano ai tanti difetti che il nostro sistema, economico, politico e culturale, già da tempo presentava. E, ancora di più, suscita indignazione il vedere la sfera politica oggi ancora così paralizzata, incapace di dare un segnale, una direzione al paese.
Intollerabile l’idea che all’origine di tutto ciò, ci sia una carenza enorme sul piano etico e morale, in cui il desiderio di potere e di profitto è stato nel tempo assecondato e lasciato proliferare fino a diventare sistema, al di la di ogni limite, anche del semplice buonsenso.
Ma soprattutto è insopportabile questa sensazione di sconforto e di buio che attanaglia la nostra comunità, e che ci impedisce di essere, se non ottimisti, almeno con un filo di speranza per il futuro.
Di fronte a tutto questo, che fare?
Il racconto di Giuseppe, e di come ha affrontato il periodo di ‘vacche magre’, può darci qualche insegnamento ancora attuale.
Innanzitutto ricordarci di quanto accumulato nel periodo di ‘vacche grasse’, ovvero nella nostra storia. Vale a dire delle risorse, tante, che ancora abbiamo e che sono ancora in campo. Ci si riferisce alle risorse umane, alla qualità della nostra gente, e soprattutto ai valori umani che connotano la nostra comunità, in primis la solidarietà. Si tratta di quel capitale sociale, come lo chiamano i sociologi, che è forse più importante di quello economico e che già in passato ci ha permesso di uscire da momenti bui nella nostra storia. Certo anche questo nel tempo è stato eroso, a colpi di materialismo e individualismo, ma le radici sono ancora sane e capaci di dare frutto.
In secondo luogo, dobbiamo ritrovare una direzione, un senso collettivo al nostro agire, identificare un percorso su cui metterci tutti insieme in cammino e in cui ognuno deve fare la sua parte. Questo è il ruolo della politica? Certamente si. Il Faraone nominò Giuseppe, uomo saggio, quale amministratore del paese e traghettatore per superare la crisi. Purtroppo nel nostro orizzonte non si intravedono figure di questo tipo, anzi: la crisi perdurante del sistema partitico ci dice che dobbiamo ‘ ora più che mai – adoperarci tutti affinché la politica si rinnovi, esca dall’auto-referenzialità in cui si è cacciata, torni ad essere ispirata esclusivamente dal bene comune. Ma non solo: anche a livello locale, si sente il bisogno di ritrovare unità d’intenti, di serrare i ranghi, di una progettualità, anche in campo economico, più condivisa, in cui ogni attore si rimetta in discussione e faccia di tutto per superare quegli steccati e quegli orticelli che finora hanno impedito o limitato l’impegno per lo sviluppo di tutti e di ciascuno.
Infine, occorre nutrire la speranza. Per i cristiani questa è una virtù ed è qualcosa di diverso e molto più dell’essere ottimisti. Ma per tutti, credenti e non credenti, deve rappresentare il giusto approccio a questa situazione, che richiede che ogni energia, risorsa, competenza, sia tesa verso un traguardo futuro. Ci si rende conto quanto sia difficile sperare, quando il lavoro se ne va, la ricostruzione è ancora ferma per problemi burocratici, i giovani migliori trovano opportunità solo all’estero.
Ma come Giuseppe non poteva agire senza coltivare la propria spiritualità (e da questa prossimità a Dio traeva forza, energia e competenze), così tocca ad ognuno di noi questo ‘esercizio’, che ci permetta di inquadrare la nostra drammatica quotidianità, di dargli senso e quindi di affrontarla nel modo migliore. E, in questo, abbiamo anche il compito di trasmettere speranza, attraverso la nostra testimonianza agli altri, aiutandoci così a vicenda nell’individuare la strada giusta per arrivare al termine di questo periodo di vacche magre che sembra interminabile.