(2 Sam 7,1-5.8-12.14.16; Sal 88; Gv 10,11-18)
Il silenzio potrebbe bastare. Il silenzio e le lacrime, il fiume di lacrime sgorgate dagli occhi di chi ha conosciuto e amato Enrico e anche di chi, senza averlo mai incontrato, ne ha sentito parlare e letto in questi giorni. Il silenzio sembra l’unica voce adatta a un dolore così grande, a un mistero così fitto, a una morte che ci lascia attoniti. Se abbiamo l’audacia di rompere il silenzio, in punta di piedi, non è per pronunciare parole terrene, impotenti e banali davanti all’enigma della morte, ma per lasciar risuonare l’unica grande parola di vita eterna. La parola che i familiari di Enrico hanno scelto per la liturgia di oggi. Quella rivolta al re Davide: “Sono stato con te dovunque sei andato”; “ti darò riposo”; “il tuo trono sarà reso stabile per sempre”. E poi la parola proclamata nel Salmo: “canterò in eterno l’amore del Signore”. E ancora la parola del Vangelo: “io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo”.
Sono parole che osano perforare il velo della morte, che osano dire “sempre”, quando noi diciamo “finché”; osano dire “in eterno”, quando noi diciamo “ieri, oggi, forse domani”; osano dire “do la mia vita e la riprendo”, quando noi diciamo “voglio farmi la mia vita”. Ma sono queste ormai, che superano il tempo, le sole parole adatte, le parole svelate nelle quali Enrico ora è immerso.
Non ci confortano le altre, le parole di vita terrena; non ci danno speranza né quelle parole che consegnano la continuazione di una vita al solo ricordo dei cari, né tantomeno quelle che ammutoliscono davanti alla fine, pensando che la morte polverizzi tutto. Possibile che in un attimo svaniscano per sempre progetti, sacrifici, desideri, sogni. Possibile che in un istante siano annientati l’amore ricevuto e offerto, le gioie e gli slanci di un’intera esistenza? Possibile che una malattia possa cancellare per sempre la vita promettente di un giovane? Noi sentiamo che se la nostra esistenza finisse con la morte, se le nostre speranze fossero destinate al nulla eterno, se i nostri passi terreni, spesso incerti e faticosi, scivolassero in un abisso oscuro, la vita intera perderebbe senso. Non siamo dentro ad un immenso inganno, vittime di un ingranaggio che gira a vuoto; siamo dentro ad un immenso abbraccio, l’abbraccio di un Padre che ci attende “per sempre”, “in eterno”, donandoci una “vita” senza fine.
Noi non vediamo quaggiù la luce piena, quella celeste in cui confidiamo sia ora avvolto Enrico; noi siamo, quaggiù, viandanti che si inoltrano di notte nei sentieri, come qualche volta accade agli scout nella route; non camminiamo però alla cieca, ma siamo dotati di una fiaccola, la fede; se non ci permette di vedere il cielo, rischiara però i nostri passi; se non ci rende solare il sentiero, ci evita però di cadere nei dirupi; se non ci dà la visione del giorno, ci aiuta però a vincere la solitudine, a vedere altri che camminano con noi, ad avere fiducia che insieme raggiungeremo il traguardo.
È inutile allora cercare di svelare il mistero; la domanda “perché?” – “perché Signore hai permesso questo?” – percorre l’esperienza religiosa umana fin dal suo inizio, attraversa tutta la Bibbia e culmina sulle labbra del crocifisso: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. È umanissima, è autentica e sofferta. Ma sappiamo che la nostra fiaccola non basta per vedere tutto chiaro; solo chi raggiunge la méta conosce il tracciato del sentiero percorso. Gesù stesso non ha avuto una risposta immediata: il suo “perché” è rimasto sospeso, tra lui e il Padre. “Io do la vita”: aveva detto e lo stava facendo; “per poi riprenderla di nuovo”: ma questa parte l’ha affidata al Padre. “Perché Signore?” La domanda rimane per adesso sospesa anche sulle nostre labbra e, come per Gesù, attende l’alba della risurrezione.
Al di fuori della fede non avrebbe senso, del resto, chiedersi “perché”; nella fede il “perché” si trasforma in una domanda diversa: “per chi?”. Il “perché” di Gesù diventa affidamento: “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito”; e in quel momento Gesù trasforma il “perché” nel “per chi”: per i fratelli e per il Padre.
La domanda vera, quindi, è “per chi”? Per chi ha vissuto Enrico, anzi, nella fede osiamo cambiare il passato in presente: per chi vive Enrico? Vive per noi, vive per incidere nei nostri cuori le parole più vere, che resistono alla morte. La sua breve esistenza terrena, interrotta troppo presto, è una scuola per noi. Ci insegna a distinguere l’essenziale dal superfluo, ad impegnare le nostre energie nelle cose che contano, senza disperderle nelle superficialità, nelle invidie, nei litigi, nelle frivolezze, nelle rivalità… come si scolorano, davanti alla vicenda di un giovane che muore, i troppi inutili impulsi che investiamo nelle cose che passano! Per chi vive? Enrico vive per la sua famiglia, per Raffaella, Giuseppe, Davide, Elena; vive per la sua ragazza, i suoi amici delle parrocchie e associazioni – Azione Cattolica, Agesci – che hanno percorso con lui dei tratti di cammino. Enrico vive per i bambini e i ragazzi che ha educato con entusiasmo, serietà e passione; vive per gli amici della pallacanestro, nella polisportiva Nazareno; vive per la musica, nella sua band e nell’animazione liturgica in Cattedrale: una persona lo ha efficacemente definito “uno spartito nelle mani del Signore”; vive per i compagni di scuola e di università. E vive per chi lo ha accompagnato e curato in questi mesi e che ora è sgomento.
È incredibile il concentrato di mondi nei quali si è impegnato: pare impossibile che un giovane di 22 anni potesse coltivare tanti interessi, vivere tante relazioni e svolgere tanti servizi, con dedizione e precisione, così esigente com’era. L’enorme affetto che in questi giorni avvolge i suoi cari, e che quasi vorrebbe compensare la bruciante partenza di Enrico, è la prova che ha davvero “dato la vita” per molti. Sembra quasi che abbia voluto concentrare tutto in così poco tempo. L’esistenza umana non è impreziosita dalla lunghezza degli anni, ma dall’intensità con cui è vissuta.
Infine, ma soprattutto, Enrico vive per il Signore. Anche in lui ora si realizza la promessa fatta a Davide: “gli conserverò sempre il mio amore”. Quello di Dio è un amore che travolge la morte. Se già gli antichi ebrei erano riusciti a dire: “Forte come la morte è l’amore” (Cantico dei Cantici 8,6), noi cristiani diciamo: “più forte della morte è l’amore”, perché è l’unica realtà che rimane per sempre. Tutto passa, ogni cosa viene sequestrata in questa dogana suprema che è la morte; tutto tranne l’amore, perché Dio è amore (Prima Lettera di Giovanni 4,8.16). È questa la nostra destinazione, il traguardo del nostro sentiero. Mentre scorrono i giorni e cresce la famiglia dei nostri cari e degli amici che hanno oltrepassato la morte, diminuisce la paura di affrontarla; il volto stesso dell’Eterno si riempie di volti; e si fa più forte l’attesa di abbracciarli nel Signore. La speranza cristiana si nutre della preghiera dei viandanti di Emmaus: “Resta con noi, perché si fa sera”. Senza di te il buio è fitto; con te le tenebre lasciano trasparire quei raggi di luce che annunciano una vita senza fine.