Focherini e gli ebrei “fratelli nella fede”

Ha anticipato il Concilio Vaticano II

“Ricordo un colloquio che ebbi anni fa con un pastore francese. Ci eravamo posti semplicemente la domanda di cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo, e credo possibile lo sia diventato; il che al tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contraddissi e risposi: io vorrei imparare a credere. Per molto non ho compreso la profondità di questa contrapposizione. Pensavo di poter imparare a credere tentando di condurre io stesso qualcosa di simile a una vita santa. Più tardi ho appreso – e continuo ad apprenderlo anche ora – che s’impara a credere solo nel pieno essere-aldiquà della vita”. La riflessione, che il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer scrive in Resistenza e resa dal carcere nazista di Tegel, mi è tornata in mente mentre con una gran folla mi trovavo sotto il sole cocente di piazza Martiri, per la liturgia di beatificazione di Focherini. Mi chiedevo cosa ci facesse tutta quella gente: richiamata in parte per l’effetto-evento, forse, o per pura curiosità. Comprensibile.
Sono convinto però che, molti, fossimo lì per cogliere un’occasione importante, per cercare di capire cosa sia davvero un cristiano. Perché questo è, in primo luogo, il senso del riconoscimento ecclesiale della beatitudine conseguita da un suo fedele: la dimostrazione pubblica che si può davvero essere cristiani. E che è possibile farlo non solo decidendolo una volta per tutte, ma imparando a credere giorno per giorno, sino al termine della vita. Com’è stato per il nostro Odo, a caro prezzo, nei suoi fulminei trentasette anni di giornata terrena. Che probabilmente non intendeva diventare un santo, ma che a credere nel Vangelo imparò, da laico autentico: nei suoi incontri, negli innamoramenti, nella moltitudine delle occupazioni lavorative ed ecclesiali, nei ruoli di figlio e marito e padre, in un territorio e un tempo in cui essere cristiani non era affatto un dato scontato, ambientale, tutt’altro! Fino a mostrare nei suoi gesti, in largo anticipo con quanto la sua Chiesa proclamerà nel Vaticano II, che il credente – se vuol essere fedele al Vangelo narratogli dal suo Signore – è chiamato ad accogliere la diversità, ad assumere la complessità, a leggere nell’altro non l’inferno ma piuttosto l’unica occasione di comunione che gli è data in vita. In una lettera, la cui raccolta dobbiamo alla pazienza tenace di don Claudio Pontiroli, Odo, rivolto alla moglie, ricorre a un’espressione rivelativa della consapevolezza di non aver compiuto nulla di strano, per un cristiano radicalmente evangelico: “Mi auguro che la Provvidenza ti assista e ti guidi ogni ora, ti sorregga col conforto della fede nella certezza che non è lontano il tempo in cui, riconosciuta l’infondatezza delle accuse attribuitemi, sia data a tutti la gioia della normalità” (16/6/1944).
Eppure quest’uomo normale compì gesti anormali: tali, almeno, in un’ora grave, mentre in un continente di solide radici cristiane si alzava una bestemmia persino inimmaginabile, culminata nel fumo dei camini di Auschwitz. Il passaggio all’anormalità della carità segnò la condanna per Odo, ma fu la salvezza per decine di ebrei la cui unica colpa era il marchio di razza inferiore. Il tutto, ben prima di quando la dichiarazione Nostra aetate (28/11/1965) avrebbe finalmente riconosciuto in loro dei fratelli nella fede, sancendo l’insensatezza del plurisecolare percorso malsano che Isaac definì insegnamento del disprezzo.
Un augurio, da carpigiano, orgoglioso di quella mattina vissuta comunitariamente all’aria aperta anche perché – non va dimenticato – la nostra diocesi è ancora largamente terremotata: che Focherini, ora, non sia ridotto a un santino o un’immaginetta sacra in più in un pantheon imbalsamato e distante dalla storia. Che resti viva e sia custodita con impegno la sua memoria pericolosa di laico, marito, papà, professionista, appassionato amante sia della sua Chiesa sia dell’impegno sociale, fedele alle ragioni di Dio non meno che a quelle della terra, formula cara a Bonhoeffer (ucciso nel lager di Flossenburg, che fra i suoi sottocampi contava Hersbruck in cui Odo trovò la morte). Che con il beato-martire Focherini, uno dei trentasei (1) giusti su cui, nella sua epoca, secondo un’antica tradizione ebraica, riposa il mondo, continuiamo a fare i conti, soprattutto con la sua straordinaria e paradossale gioia della normalità. E che, infine, ripensando a lui ricordiamo che anche oggi essere cristiani e vivere la vita buona del Vangelo, certo, non è facile; ma si può. Nonostante tutto.
 
 1)       Si fa riferimento a un`antica tradizione ebraica secondo cui ogni generazione si salva perché ci sono 36 giusti, spesso nascosti, che in ebraico si chiamano Lamed Vav perchè queste due lettere formano appunto il numero 36. Consiglio un bel romanzo su questa leggenda, L`ultimo dei giusti, di Schwarz-Barth, ambientato durante la Shoà.