(Tb 2,9-14 – Sal 111 – Mc 12,13-17)
È la giustizia il filo conduttore della Parola che il Signore oggi ci dona. La giustizia di Tobi che rifiuta un capretto eppure era molto utile per lui e per sua moglie, per il solo sospetto che quel capretto non sia in realtà parte del salario ma in qualche modo sia stato rubato o sia stato ottenuto con qualche inganno.
La giustizia che Gesù prospetta nella risposta ai farisei e agli erodiani, una giustizia che li spiazza perché nasce da uno sguardo sapiente. La risposta di Gesù alla loro domanda, che era anche una trappola, come accade di consueto nei Vangeli: “dobbiamo o no pagare il tributo a Cesare?”. Eccede alla domanda, proprio in questo manifesta uno sguardo molto più profondo del loro. Il loro possiamo dire che è uno sguardo orizzontale, addirittura uno sguardo malevolo, perché chiaramente dice Marco che volevano tendere un tranello a Gesù, volevano coglierlo in fallo e Gesù non risponde solo alla loro domanda ‘è lecito o no’, poteva solo fermarsi alla loro questione dicendo: ‘quello che è di Cesare rendendo a Cesare’, invece aggiunge ‘quello che è di Dio a Dio’ perché è qui che c’è l’origine di ogni giustizia.
La giustizia non si misura semplicemente sulle relazioni orizzontali. Quando gli uomini utilizzano semplicemente questo metro, i rapporti interpersonali, quando cioè scambiano la giustizia come convenzione sociale, finisce sempre che qualcuno ci guadagna e molti altri ci perdono, finisce con la legge del più forte. Si finisce con l’accomodarsi sulla volontà di chi ha più potere e più influsso. Se si arriva invece all’origine della giustizia, che è Dio, è bello ed importante ricordare questo all’arca di san Domenico, un uomo che faceva partire tutto da Dio e tutto faceva ritornare a Dio, allora non c’è più il rischio che l’altro diventi strumento, non c’è più il rischio dello sfruttamento perché lo sguardo è uno sguardo profondo. Quella immagine che Gesù fa rivelare dalla moneta, sappiamo che quando le monete venivano coniate portavano il volto e l’iscrizione dell’imperatore regnante, è in realtà uno sguardo molto più profondo su quell’immagine di Dio che è nell’uomo stesso. Gesù prende l’occasione davanti all’immagine coniata sulla moneta se l’immagine è di Cesare, rendetegli quello che è suo, e notate che non dice ‘date a Cesare’, ma rendete, restituite. L’immagine viene da Cesare va resistita a lui, ma Gesù invita a guardare ad un’immagine molto più profonda, l’essere umano: immagine e somiglianza di Dio, a lui va reso ciò che è di Dio, cioè va riconosciuto nell’uomo stesso l’impronta, il conio di Dio.
Quando si arriva a fondare la giustizia su Dio, allora davvero si può parlare di dignità intrinseca della persona umana, di rispetto profondo dell’altro. Una rete di relazioni puramente orizzontali è sempre pericolosa, il fondamento in Dio è sempre salvifico, perché dà la gioia e l’opportunità di vedere nell’altro un fratello, nell’altra una sorella.
È proprio così che nella tradizione cristiana si superò la visione ristretta della fraternità, che era limitata fino al cristianesimo ai legami di sangue o al massimo ai legami sociali: i cittadini della medesima città potevano chiamarsi fratelli in Grecia oppure i membri della stessa tribù si potevano chiamare fratelli in Palestina, mentre ad un certo punto nelle comunità cristiane i battezzati incominciarono a chiamarsi fratelli e sorelle fra di loro. Erano persone provenienti da popoli diversi, da stati diversi, schiavi, padroni, uomini e donne, maschi e femmine. Questa fu una grande rivoluzione silenziosa, che agirà piano piano nei secoli.
Che parte da che cosa? Dall’essere immagine e somiglianza di Dio, dal diventare figli di Dio nel Battesimo. È l’unico Battesimo, l’esser inseriti in Cristo, immagine di Dio che fa la dignità delle persone. L’influsso sociale di questa piccola grande rivoluzione arriva fino a noi.
Gesù ci invita a dare tutto a Dio. A volte questo episodio viene riassunto troppo rapidamente in un proverbio ‘date a Cesare, quello che è di Cesare, a Dio quello che è di Dio’, di solito si trascura il rendete, dicendo date.
Questo episodio e questo proverbio, mettono in contrasto due aspetti come se Gesù avesse voluto separare l’umano dal divino, il corpo dall’anima, le cose di ogni giorno dalla salvezza eterna. Gesù non ha messo sullo stesso piano Cesare e Dio, ma ha voluto dirci che ci sono dei doveri che devono essere riservati a Cesare, noi li chiamiamo doveri di buona cittadinanza, ma che a Dio deve essere riservato tutto: il rispetto dell’altro, il rispetto di sé stessi, il rapporto con il creato.
Se si parte da Dio, se si assume questo sguardo profondo sulla realtà, non si perde nulla di ciò che ha valore. Se si parte da Dio acquista significato ogni aspetto della realtà: l’amore, l’amicizia,… anche le esperienze più quotidiane, anche quelle più banali, si riempie di senso il tempo e acquista significato persino l’esperienza della sofferenza, per quanto dura. Acquista spessore l’esperienza della gioia, che altrimenti rischia di stemperarsi in superficialità. Se si parte da Dio. Non sto parlando della teocrazia, non sto parlando del potere che viene da Dio, ma sto parlando proprio dello sguardo che viene da Dio come Gesù nel Vangelo fa. Se si parte da Dio si illumina tutto.
Termino con una bella immagine che molti anni fa un mio amico, un mio coetaneo, espresse in una testimonianza. Lui era ateo convinto fin verso i quarant’anni, poi per un invito rivoltogli da un amico a leggere insieme una pagina di Vangelo si convertì nel giro di pochi giorni. Lui esprime sempre questo passaggio: è come il passaggio di una visione in bianco e nero ad una visione a colori. Illuminata da Dio, a partire Dio, la realtà non perde affatto di spessore e di colore, ma anzi ne acquista perché tutto diventa opportunità, tutto diventa appello, tutto diventa richiamo.
Allora quel ‘prendete’, anziché il ‘date’, vuol dire che la nostra vita è riposta. Vuol dire che la nostra vita è semplicemente un riflesso di una chiamata, non siamo noi che partiamo, ma è il Signore che parte. È il Signore che fa delle proposte attraverso delle esperienze quotidiane in molte delle persone che incontriamo, le gioie e le sofferenze. È lui che chiama, noi possiamo solo rendere e restituire.
Ringraziamo il Signore perché il dono della fede è davvero un dono inestimabile, é la chiave che ci aiuta a leggere tutta la realtà come un’offerta grande carica di senso.
Chiediamo al padre Domenico quello stesso sguardo unitario, profondo e teologico che lui ha avuto sulla realtà diventi il nostro sguardo.
+ Erio Castellucci