Li amò sino alla fine – Fede e dono di sé

8 marzo 2023 - II Meditazione Quaresimale

Il sacrificio di san Lorenzo e la fede dei martiri
Mons. Erio Castellucci, arcivescovo
Vangelo secondo Marco (Mc 10,17-23)
17Mentre [Gesù] usciva per mettersi in viaggio, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: ‘Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre’».
20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dàllo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi». 22Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni.
23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!».
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Il diacono Lorenzo in uno dei capitelli all’ingresso della cripta del duomo di Modena:

… amministra il Battesimo

… è giudicato dall’imperatore Valeriano (253-260)  

                                         

… viene bruciato sopra una lettiera ovvero graticola

… presenta i poveri, suo tesoro

Vi ringrazio per la presenza e la partecipazione a questo piccolo percorso quaresimale. Questi minuti sono dedicati a un argomento che sembra molto lontano: il martirio di san Lorenzo. In realtà rispolverare la spiritualità del martirio significa motivare il nostro quotidiano percorso di fede: perché? Perché la spiritualità del martirio non è la spiritualità dell’autolesionismo, del suicidio; è la spiritualità del dono. Il martirio che Gesù chiede è prima di tutto il martirio della vita quotidiana, il tentativo di vivere come dono gli incontri, gli avvenimenti, persino le contrarietà, gli ostacoli e le sofferenze della vita quotidiana. E il dono dà sempre una tonalità positiva, di speranza.
Le quattro scene del capitello che avete sotto [ndr: nel foglio] e che non avevo mai notato ben,e prima di preparare questo incontro, rappresentano quattro momenti diversi della storia di Lorenzo, di cui non sappiamo molto; però quel poco che sappiamo ci conforta. Sappiamo che era un diacono della Chiesa di Roma della metà del III secolo dopo Cristo: uno dei sette diaconi, perché Roma, nel terzo secolo – era ancora un’epoca di persecuzioni – era divisa in sette diaconie, sette zone della città, dentro le mura, affidate ciascuna, per la carità e alcuni sacramenti, ad un diacono. In quegli anni a Roma era papa Sisto II, che verrà martirizzato pochi giorni prima di Lorenzo.
A metà del III secolo dunque, quando era diacono Lorenzo, si scatenò una persecuzione tra le più violente della storia della Chiesa: quella di Decio e Valeriano, due imperatori che – uno dopo l’altro – cercarono di estirpare il cristianesimo dall’Impero; una persecuzione che non riguardò solo Roma, ma si estese anche alle altre zone dell’Impero, per esempio al Nord Africa, dove venne martirizzato il vescovo di Cartagine san Cipriano (grande Padre della Chiesa); era stato martirizzato all’inizio della persecuzione, prima di papa Sisto II, un altro vescovo di Roma, papa Stefano. Gli imperatori cercavano così di decapitare le guide della Chiesa e di togliere forza alle comunità cristiane. Lorenzo assiste alla cattura del suo vescovo Sisto e di altri quattro diaconi, che vengono uccisi il 6 agosto nel 258; e subito viene preso anche lui e ucciso quattro giorni dopo.
Il capitello rappresenta sui quattro lati alcune fasi della sua vita: la prima scena raffigura l’amministrazione del battesimo, che è uno dei compiti dei diaconi: Lorenzo versa con un’anfora l’acqua sulla testa del battezzando, il quale in realtà si sta immergendo, perché allora il battesimo avveniva normalmente per immersione e avveniva di solito in età adulta. Il secondo quadretto rappresenta Lorenzo giudicato dall’imperatore Valeriano: l’imperatore si trova sulla sinistra, col dito puntato, mentre emette la sua sentenza; e il diacono viene condotto da una guardia verso il martirio. Poi c’è la terza scena, molto famosa: quando Lorenzo viene giudicato, gli si dà una condizione, come racconta sant’Ambrogio: avrebbe potuto salvare la propria vita se avesse consegnato i tesori della Chiesa. L’imperatore aveva sentito dire che i diaconi custodivano i tesori: effettivamente avevano come compito primario la carità verso i poveri, quindi erano anche una sorta di economi della comunità, con il compito di gestire gli aiuti ai bisognosi. Lorenzo accetta la condizione, ma si ripresenta qualche giorno dopo con il corteo dei poveri da lui assistito, dicendo: “Questi sono i tesori della Chiesa”. L’imperatore prende questo gesto come una sorta di sfida e lo fa immediatamente uccidere. In che modo muore Lorenzo? La tradizione rappresentata nella quarta immagine non è sicura storicamente; è certo che il 10 agosto del 258 Lorenzo venne ucciso a Roma. Non è certo che sia stato bruciato sopra una graticola e che addirittura, una volta avvertito di essere arrostito su una parte del corpo, abbia chiesto agli aguzzini di essere girato dalla parte opposta… Certamente Lorenzo venne martirizzato come tanti cristiani dell’epoca – specialmente quelli che rivestivano un ministero – in maniera feroce, come si usava all’epoca, per disincentivare l’adesione alle comunità cristiane.
In realtà, come aveva scritto pochi decenni prima Tertulliano, un altro autore cristiano perseguitato, “il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani”. Infatti, finita questa tremenda persecuzione  – ce ne sarà poi un’altra molto pesante, paragonabile a questa, scatenata all’inizio del IV secolo dall’imperatore Diocleziano – i cristiani si trovarono più numerosi di prima nelle città dell’Impero. Il cristianesimo si era diffuso porta a porta, attraverso una serie di relazioni personali, famiglia per famiglia, e aveva non solo resistito, ma anche incentivato la propria vita durante le persecuzioni. Le persecuzioni dunque non servirono a sterminare le comunità – certamente le mantenevano ridotte rispetto al numero degli aderenti – ma fortificarono la persuasione che quella era la Chiesa del vero Dio.
E allora credo che una prima ripercussione della storia di san Lorenzo sia proprio questa: il male c’è, il male spesso è sovrastante cioè sembra avere la meglio, il male è terribile e non si può immaginare una spiritualità del martirio come una passeggiata: ci sono dei drammi, il male fa rumore, il male esplode, sembra inghiottire ogni volontà di bene, sembra prevalere. Dico sembra perché noi cristiani siamo convinti che il male in realtà sia alla fine perdente, sia meno efficace e meno radicato del bene. Noi non possiamo accodarci alla litania di quelli che non rilevano altro che mali nel mondo; noi dobbiamo chiamare male il male e bene il bene: questo sì. Non possiamo fare finta che il bene sia male e il male sia bene: e quindi ogni volta che c’è violenza, ogni volta che qualcuno toglie la vita a un altro, ogni volta che in qualsiasi situazione si infligge una ingiustizia, questo si chiama male; poi non tocca a noi esseri umani entrare nel cuore umano e quindi dare patenti di responsabilità o di colpevolezza o di innocenza, questo lo sa il Signore. Ma il male è male e il bene è bene. Però noi sappiamo che il male non vince: c’è una rete di bene molto più profonda. Per fare un paragone botanico, se pensiamo a un albero, il male assomiglia alle fronde che si muovono quando c’è molto vento, il bene assomiglia alle radici che affondano sotto il terreno. Il male sembra vincere, perché il bene spesso non si vede; e tuttavia se da un albero cadono le foglie ma restano buone le radici, l’albero vive; se invece le foglie sono belle ma si seccano le radici, l’albero muore. Se il mondo va avanti è perché c’è un reticolato di bene molto più diffuso e radicato rispetto al male.
Seconda considerazione: la Chiesa ha sempre inteso il martirio non come una scelta di sofferenza ma come una scelta di amore. Il martire non è colui che si butta tra le fauci degli uccisori o addirittura li aizza perché lo uccidano: questa sarebbe una forma autolesionista, una forma fanatica; il martire non è il kamikaze che si fa esplodere insieme a quelli che vuole uccidere: questa è una forma di omicidio-suicidio che non ha nulla a che fare col martirio. Il martire è colui che ha scelto di amare fino in fondo, sulle tracce di Gesù, è colui che va fino in fondo nell’amore: e quando uno si incammina nella strada dell’amore – chi è genitore, nonno, educatore lo sa molto bene – si prepara a soffrire di più di chi pensa solo a se stesso, perché intreccia la propria vita con la sorte degli altri; se dunque l’altro sta male, sta male anche lui, se l’altro non lo contraccambia, vive la delusione o un senso di tradimento. Chi si mette nella strada dell’amore e mescola la propria vita a quella degli altri si prepara anche a delle sofferenze, ma chi evita la strada dell’amore e pensa solo a se stesso vive apparentemente meno fastidi, ma in realtà prova il vuoto: perché noi siamo fatti per amare. Il martirio non è altro che la scelta di andare fino in fondo nell’amore, senza tradire il Signore e i fratelli. Se Lorenzo fosse fuggito avrebbe tradito la propria vocazione; andando fino in fondo nella scelta di amare, ha realizzato la propria missione, come le decine e decine di migliaia di martiri della storia della Chiesa. Il nome dei martiri si imprime nel cuore di Dio e nelle pieghe della storia della fede cristiana, mentre il nome degli uccisori scompare con loro; ci ricordiamo qualche criminale, ma lo ricordiamo proprio come criminale. Nel cuore di Dio si incide l’amore, chi sceglie di amare.
La terza considerazione riprende l’accenno iniziale: a tutti è chiesto il martirio, non – grazie a Dio – nel senso di rinunciare alla vita sotto minaccia di violenza, ma nel senso di una offerta quotidiana della propria esistenza, e concretamente del proprio tempo, delle energie, degli affetti, a volte anche dei beni, a cominciare dalle persone vicine, dalla propria famiglia, dagli amici. E’ una scelta di fondo: ognuno può impostare la propria vita nella forma del prendere (come predazione) o nella forma del donare (come donazione). Siamo tutti tentati di vivere dei momenti di predazione degli affetti altrui, dei beni, del tempo, del denaro; siamo tutti tentati perché nell’immediato è più appagante predare che donare. Ma poi, quando siamo onesti con noi stessi e magari ascoltiamo davvero la parola del Signore, ci rendiamo conto che la vita vale la pena di essere vissuta come dono, come relazione di gratuità. Non è questione di essere pagati o non essere pagati: uno può vivere anche il proprio lavoro, giustamente remunerato, nella forma della predazione, e allora si lamenterà sempre perché non è riconosciuto, perché percepisce poco, perché i suoi colleghi ne fanno meno e sono trattati meglio e così via; oppure nella forma della donazione, e allora, vedendosi riconosciuto economicamente il proprio lavoro, ringrazierà perché ha un lavoro, perché il lavoro ha a che fare con la dignità, e se è cristiano prenderà alimento dall’eucarestia, dove ogni volta che noi offriamo il pane e il vino – cioè noi stessi – noi offriamo il frutto della terra e del lavoro e di lì prendiamo ossigeno perché il nostro lavoro quotidiano sia vissuto nella forma eucaristica, cioè appunto nella forma del dono. Non è dunque questione di fare cose che vengono pagate o meno, è di come farle.
La teologia del martirio ci dice proprio questo: la tua vita, quotidianamente è martirio, ma non nel senso brutto ma nel senso bello, cioè è decisione di amare, di offrire; certo ci sono anche i momenti brutti, molto brutti – pensiamo alle sofferenze che ogni tanto viviamo, alle malattie, ai lutti, alle delusioni, agli affaticamenti – però viverle nella forma del dono vuol dire che il negativo non è solo negativo, il negativo diventa anche un insegnamento: la Lettera agli Ebrei dice che Gesù imparò l’obbedienza dalle cose che patì. Lo dice di Gesù: se lui ha imparato dalle cose che ha patito, vuol dire che non c’è nulla che vada perduto quando cerchiamo di vivere le nostre giornate nella forma del dono, ringraziando; i martiri muoiono ringraziando, non per i tormenti a cui sono sottoposti, ma perché sanno che quella è la parola penultima, la parola ultima è: vita eterna.
Ultimo spunto: perché ho scelto questo vangelo? Perché qui si parla dei beni. Lorenzo fa il contrario del giovane ricco: il ricco conserva la sua vita e i suoi beni, ma se ne va triste; Lorenzo invece non conserva la sua vita, ma la lascia con gioia, perché i suoi beni erano i poveri. Lui aveva costruito il suo ministero – come gli altri diaconi – nell’aiuto dei poveri e sapeva che poteva lasciare a loro la propria esistenza. Lorenzo aveva risposto di sì, là dove il giovane ricco aveva risposto di no. Perché – se notate dice il vangelo al versetto 21 di questo capitolo 10 di Marco: Gesù fissatolo lo amò. Non dopo la risposta, ma prima, tanto è vero che la risposta è negativa, ma quell’uomo se ne va con lo sguardo amorevole di Gesù addosso. Gesù non condiziona il suo amore alla risposta; questo amore è dunque preventivo rispetto ad ogni risposta. Se poi quel giovane avesse seguito i consigli di Gesù, come ha fatto Lorenzo, avrebbe avuto la gioia, invece poi se ne va triste, amato ma triste, perché ha chiuso la porta all’amore. E quali sono i consigli di Gesù? Sono tre: non dobbiamo mai dimenticare che servono tutti e tre e ci danno una mappa nel rapporto con i beni: vendi quello che hai e dallo ai poveri, cioè vivi il distacco, ma non buttando nel fiume i tuoi beni bensì condividendoli, poi vieni e seguimi, cioè mettiti in cammino: in questo dinamica, nel seguire Gesù, sta la gioia cristiana, la gioia di Lorenzo e la gioia del nostro martirio quotidiano.