II Domenica del Tempo Ordinario – anno B –
1 Sam 3,3-10.19; Sal 39; 1 Cor 6,13-15.17-20; Gv 1,35-42 –
“Maestro, dove dimori?”. La risposta di Gesù ai due discepoli del Battista che lo stanno seguendo è piuttosto inconsueta. Potevano aspettarsi di sentire nominare da lui una città, un villaggio o almeno un quartiere, ma certamente non immaginavano di sentire questo misterioso: “Venite e vedrete”. Da parte di Gesù non però è una risposta evasiva, non è solo un invito a fare strada con lui per scoprire la sua casa. No: “venite e vedrete” è proprio la sua dimora. La dimora di Gesù è il cammino stesso che dovrà compiere insieme a loro, insieme ai discepoli. Per questo parla al futuro: “vedrete”. E vedranno in poco tempo, cominciando a seguirlo, che la sua dimora non è un luogo stabile; la sua dimora è la strada, il lago, le colline, i campi, i villaggi. Gesù dimora, cioè, dove dimora l’uomo, che è per natura pellegrino. Il Vangelo insiste perciò sui verbi di movimento e li ripete più volte in poche righe: passare, seguire, venire, andare, condurre. L’abitazione di Gesù il cammino degli uomini, il sentiero incerto, gioioso o faticoso, che ciascuno di noi percorre nella vita.
“Maestro, dove dimori?” Se la sua casa è il sentiero, i discepoli non dovranno meravigliarsi quando Gesù andrà incontro ai poveri, ai peccatori, agli ammalati, ai sofferenti; condivideranno loro stessi il suo stile itinerante, che non attende chiuso in casa l’arrivo della gente, ma la va a scovare lui stesso, anche nei luoghi e nelle situazioni poco adatte per un Rabbì, anche negli spazi profani e sconsacrati. Non dovranno scandalizzarsi neppure di fronte alla croce, dimora poco desiderata ma purtroppo molto affollata, che tante volte ci ospita ed è la casa di tutti i sofferenti. Quei discepoli avranno comunque tutta la nostra comprensione quando fuggiranno – quasi tutti – davanti alla croce, perché nessuno pianta la tenda volentieri sul Golgota. Gesù però non poteva schivare proprio quella dimora, se voleva davvero abitare la nostra vita, condividere tutto con noi, come gli chiedeva il Padre. E proprio perché il Figlio obbediva a Dio, Padre suo e di tutti, non poteva tirarsi indietro quando gli fu chiesto di abitare fino in fondo la condizione dei fratelli, di noi, compresa la morte, e la morte peggiore.
Chi segue Gesù non cerca una comoda sistemazione, una dimora stabile; chi segue Gesù trova casa nel cammino dei fratelli e si lascia condurre là dove il Signore lo chiama, e lì pianta la sua tenda; si lascia guidare anche sui sentieri più incerti, e lì lavora e abita. Don Francesco Venturelli, di cui ricordiamo il 75.mo anniversario della morte violenta, si è messo in fila con i due primi discepoli che hanno seguito Gesù. “Maestro, dove dimori?” “Vieni e vedrai”, si è sentito rispondere Francesco. Ed è andato, ha scelto di seguire il Signore come prete, ha servito la sua gente abitandone le fatiche, le povertà, le risorse, i desideri. Si è speso da vice-parroco a Mirandola, nella prossimità alla popolazione da poco uscita dalla prima guerra mondiale; si è dedicato all’educazione dei bambini e dei ragazzi, accompagnando i primi passi dello scoutismo. E poi ha risposto di sì alla richiesta di diventare parroco a Fossoli.
“Signore, dove dimori’”. “Vieni e vedrai”. Non avrebbe mai immaginato, come i due primi discepoli, che avrebbe visto il Golgota. La sua parrocchia infatti, pochi anni dopo l’inizio del ministero parrocchiale, divenne quella “Fossoli” che l’ha resa poi famosa dovunque: prima, in mano ai tedeschi, come campo di concentramento e di smistamento verso i campi di sterminio nazisti, dove vennero internati profughi, prigionieri di guerra, ebrei, uomini politici e lavoratori coatti; poi, capovolta la situazione, il campo passò in mano al Comitato di Liberazione Nazionale e si popolò di dispersi, tedeschi e membri del passato regime fascista. Ma questo rivolgimento non aveva capovolto il cuore pastorale del parroco, che sentiva anche il campo come parte della sua comunità, chiunque vi fosse internato.
“Chiunque”: don Venturelli ha dato una mano a chiunque, senza guardare la nazionalità, la condizione sociale, la fede religiosa o il colore politico. Ha aiutato cristiani, ed ebrei, italiani e stranieri, persone di destra e di sinistra; ha aiuto chiunque abbia incontrato nella sua dimora, Fossoli, che era diventata un crocevia di sofferenze e di violenze inflitte e subite. Don Francesco ha abitato, come Gesù, le scomode dimore della vita umana, portando lampi di luce dove prevaleva il buio. Il denaro, le medicine, il cibo, i vestiti erano come piccoli lampi di luce, e così le lettere smistate dal campo o recapitate ai prigionieri. Fu davvero il “parroco del campo”, di chiunque vi passasse, proprio perché non aveva fatto una “scelta di campo”, scegliendo di seguire solo il Maestro, abitando quella dimora incerta che è l’uomo.
Impegnandosi ad aiutare “chiunque”, il parroco di Fossoli imitò il buon samaritano, che si fermò a soccorrere il ferito al ciglio del sentiero, senza guardare la stirpe e il credo. Il samaritano della parabola, in realtà Gesù stesso, è il prossimo che si china su chiunque abbia bisogno. Il chiunque della prossimità è il contrario esatto del qualunquismo, indifferente ad ogni situazione. Il mistero, ancora velato, che avvolge l’assassinio di questo martire del ministero pastorale – pur auspicando che, come dovrebbe sempre accadere, venga prima o poi completamente svelato – in un certo senso si addice alla sua scelta di servire chiunque, senza nemmeno conoscere bene la sua identità. Certo don Francesco, come risulta dalle testimonianze di chi lo ha frequentato nelle sue ultime settimane di vita, sapeva di essere nel mirino; esprimeva preoccupazione, dava disposizioni per la sua sepoltura, manifestava delle premonizioni. E quando quell’uomo qualunque lo chiamò fuori per tendergli una trappola, il pastore, pur sospettando l’inganno, non volle trascurare la possibilità che vi fosse davvero una persona a cui portare i sacramenti, un uomo chiunque che aveva bisogno di lui. Come altri parroci, uccisi a tradimento in quel tempo di accuse e vendette, anch’egli cadde per avere abitato fino in fondo la dimora del suo Maestro, la croce, passaggio per il regno riservato ai miti, agli operatori di pace e di giustizia, ai servi fedeli di Dio e dell’uomo.
Erio Castellucci, vescovo