All’alba di Pasqua, nei pressi del sepolcro di Gesù, si svolgono alcune corse. Maria di Màgdala, verificato lo spostamento del masso, corre da Pietro e dal discepolo amato per avvisarli. Pietro prende immediatamente la corsa per rendersi conto di persona. E il giovane discepolo amato, che parte insieme a Pietro e – certamente a motivo dell’età – arriva prima, si ferma davanti alla tomba aperta. Dice di lui il Vangelo: “si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò”. Entra invece Pietro, per primo, anche se si classifica ultimo nella corsa. Possiamo immaginare, aiutati dagli scavi archeologici in Medio Oriente, che il sepolcro di Gesù, come tanti altri, fosse composto da due ambienti: un vestibolo, cioè una specie di anticamera ad altezza d’uomo, dove tutti potevano entrare per rendere omaggio al defunto; e la tomba vera e propria, alla quale si accedeva dal primo ambiente attraverso una piccola porta, molto bassa – un metro o anche meno – che veniva coperta da una pietra e, una volta eseguita la sepoltura, veniva eventualmente percorsa per ungere la salma e per verificare, nell’arco dei tre giorni successivi, l’effettiva morte; dopodiché si procedeva al sigillo della pietra, che chiudeva definitivamente l’ingresso tra i due ambienti. La scena descritta da Giovanni fa pensare che Maria di Màgdala e il discepolo amato si arrestino entrambi davanti all’imbocco della tomba, dopo essere entrati nel vestibolo. Lei, appena vede la porticina della tomba aperta, corre via; il discepolo, quando arriva si affaccia appena sull’imbocco, scorge i teli che avevano avvolto il corpo di Gesù, e poi esce all’aperto per attendere Pietro. Solo lui, quando giunge, entra anche nel secondo ambiente, e per primo può vedere non solo i teli ma anche il sudario, avvolto in un angolo.
Perché il discepolo amato non entra subito? La curiosità, specialmente nei ragazzi, è molto forte: invece lui aspetta il suo compagno più anziano e lascia che sia Pietro a vedere per primo. Le spiegazioni possono essere diverse. Forse il giovane discepolo non entrò perché aveva paura di trovare ancora i ladri là dentro: Aveva sentito dire da Maria: “hanno portato via il Signore dal sepolcro: il che faceva pensare ad un furto. O forse il ragazzo temeva di incorrere nelle sanzioni previste per chi veniva a contatto con un cadavere o una tomba, che secondo la legge ebraica procuravano una condizione di impurità. O forse, semplicemente, si trattò di un gesto di rispetto verso il discepolo più anziano, per lasciare a lui il compito di primo testimone dell’accaduto. Possiamo pensare anche ad un motivo che li comprenda tutti: una dose di timore nell’entrare in una tomba violata, e proprio quella del Maestro, insieme alla paura di contaminarsi e al bisogno di sapere prima il parere di Pietro, più anziano di lui e quindi più saggio. Certo, è strano però che Pietro sia il primo ad entrare ma il discepolo amato sia il primo a credere: è di lui infatti, e non di Pietro, che il Vangelo dice: “entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette”. Se il Vangelo di Giovanni registra questi particolari, non è solo per darci delle suggestioni psicologiche sul discepolo amato. L’evangelista sceglie con cura i dettagli da narrare, perché – come dice lui stesso concludendo il suo racconto – se avesse dovuto elencare ad una ad una tutte le cose che poteva dire su Gesù, il mondo stesso non sarebbe bastato a contenere i libri che si dovrebbero scrivere (cf. 21,25): lui ha scelto di narrare solo ciò che può nutrire la nostra fede (cf. 20,31). C’è dunque anche un significato più profondo nel comportamento del discepolo amato.
Senza pensare ad una gara tra lui e Pietro – non appaiono mai dei concorrenti in competizione tra di loro – vengono però in mente altre quattro scene del Vangelo di Giovanni nelle quali compare questa coppia di discepoli. Durante l’ultima Cena, quando Gesù aveva rivelato che uno dei suoi l’avrebbe tradito, Pietro chiede al discepolo amato di informarsi chi fosse; ed è proprio lui a chinarsi sul petto di Gesù e a domandarglielo (cf. 13,21-24). Poi, sotto la croce c’è solo il discepolo amato, oltre alle donne; qui Pietro si fa notare per la sua assenza, dopo avere solennemente giurato che avrebbe dato la vita per Gesù (cf. 13,37). Quando poi Gesù risorto, poco tempo dopo, si presenterà sulla riva del mare di Tiberiade e inviterà i discepoli a riprendere la pesca, dopo una notte infruttuosa, sarà il discepolo amato a riconoscerlo e a dire per primo a Pietro: “è il Signore!”. E infine, subito dopo, Pietro professa a Gesù per tre volte il suo amore per lui, chiedendo poi al Signore quale sarà la sorte del discepolo amato; Gesù gli risponderà in quel modo misterioso: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?” (cf. 20,22-23).
Chi è dunque questo misterioso discepolo, che ha tanta confidenza con Gesù da porre il capo sul suo petto, tanto coraggio da seguirlo sotto la croce, tanto rispetto, misto forse a paura, da esitare all’ingresso della tomba vuota, tanta fede da essere il primo a “vedere e credere” alla risurrezione di Gesù, tanta intuizione da riconoscere per primo il Risorto e tanta importanza da dover “rimanere” fino al ritorno del Signore, fino alla fine del mondo? È chiaro che non si tratta solo di una persona in carne e ossa: e tutto fa pensare che questa persona sia lo stesso autore del Quarto Vangelo, Giovanni; è lui, ma non è solamente lui. Il “discepolo amato” è ciascuno di noi. Se rileggiamo il Vangelo di Giovanni e mettiamo il nostro nome al posto dell’espressione “discepolo amato”, scopriamo tutte le sfumature dell’amore di Dio verso di noi. Io sono il discepolo amato; e proprio quando mi sento amato dal Signore ho confidenza con lui, trovo la forza di seguirlo anche sotto la croce, gli esprimo le mie paure nel varcare il sepolcro, ogni sepolcro che la vita presente, mi affido però a lui e lo riconosco Signore. Ecco perché Giovanni deve “rimanere” per sempre: perché l’amore non può scomparire dalla faccia della terra. La discriminante della fede non consiste semplicemente nell’osservanza materiale dei comandamenti, per quanto importante, o nel coinvolgimento emotivo dentro l’esperienza di una comunità, per quanto utile e necessaria. La fede cristiana consiste essenzialmente nella coscienza di essere amati dal Signore, di essere quel “discepolo amato” che non smette mai di essere amato, nemmeno quando esprime paura ed esitazione. Siamo amati dal Signore: questa è la grande forza pasquale, che dà senso ad ogni istante, anche alla croce, anche quando – come in questo tempo – avvertiamo forse più il clima del Golgota che non quello del sepolcro aperto; siamo amati, siamo attesi. Il Risorto non ci preserva dal dolore, ma lo porta insieme a noi e ci apre la prospettiva della risurrezione, della vita eterna.