– At 10,34a.37-43 – Sal 117/118 – Col 3,1-4 – Lc 24,13-35 –
Una vicenda durata poche ore, il tempo di percorrere a piedi undici chilometri, di stare a mensa insieme con il Signore, e poi di ripercorrere lo stesso cammino in senso inverso: da Gerusalemme a Emmaus, da Emmaus a Gerusalemme. I due discepoli, uno dei quali si chiama Cleopa – mentre il nome dell’altro non ci è rivelato – percorrono in realtà un enorme sentiero interiore. Lo possiamo riassumere attorno ai quattro simboli di Cristo che all’inizio di questa celebrazione eucaristica sono stati incensati: il Crocifisso, l’immagine del Risorto, il cero pasquale e l’altare. In fondo questi sono i quattro pilastri del cammino dei due discepoli di Emmaus e del nostro cammino di fede.
IlCrocifisso. I due si erano fermati lì, all’evento del Calvario: per loro la croce non aveva il senso che ha per noi: espressione massima dell’amore per Dio e della condivisione con i fratelli; per loro la croce aveva solo il sapore del fallimento, della disfatta, della smentita delle pretese del Messia. “Noi speravamo che sarebbe stato lui a liberare Israele”: noi speravamo, ma la nostra fiducia è andata a sbattere contro il macigno di una pena vergognosa, di una pena maledetta. Noi speravamo: il Credo che loro esprimono quando li affianca il forestiero ancora sconosciuto, arriva solo fino alla croce; dicono: “il nazareno, profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo, è stato consegnato ai capi e alle autorità, che lo hanno fatto condannare a morte e lo hanno crocifisso”. Hanno sentito in realtà delle voci, perché è la sera della domenica, hanno fatto in tempo a Gerusalemme a raccogliere questo mormorio strano: la tomba è vuota, ma non hanno avuto la cura e la pazienza di verificare le voci, di dare qualche credito – almeno per ipotesi – alle parole delle donne. Se ne sono andati. La croce era un muro troppo alto da scalare.
Noi portiamo tante croci e ciascuno nel cuore ha la propria; siamo feriti da tante fatiche; certo la vita è fatta anche – grazie a Dio – di molti momenti gioiosi, ma ciò che si incide più profondamente nel nostro animo sono le sofferenze, e quando veniamo in chiesa e iniziamo la liturgia eucaristica, noi come i discepoli di Emmaus portiamo anche le delusioni, le sofferenze, le speranze cadute; le ammettiamo, confessandole all’inizio della Messa. Se tutto fosse finito con la croce, certamente noi non saremmo qui, la fede non sarebbe ripartita, il messaggio cristiano sarebbe finito come uno dei tanti messaggi del mondo antico: “una volta ci fu un uomo che si illuse di poter cambiare il mondo, andava in giro predicando il Regno di Dio ma venne sopraffatto dai potenti”…
E invece – secondo simbolo – Gesù, risorto da poche ore, si affianca loro, cammina con loro, prende il loro passo; non impone il suo, né tanto meno li sgrida perché stanno sbagliando direzione, fuggono da Gerusalemme, tornano alla vita di prima. No: il Signore è talmente delicato che non impone la sua presenza, il Risorto non sbalordisce ma affianca ed entra in dialogo; in un dialogo talmente intimo che diranno successivamente, dopo averlo riconosciuto, “non ci ardeva forse il cuore nel petto?”, cioè: ci ha portato una parola vera. Riecheggia ciò che dirà san Pietro a Gesù quando tutti se ne vanno: “Tu hai parole di vita eterna”. Si comincia a riconoscere il Signore quando si sente che la sua parola non è come i miliardi di parole di vita terrena, che lasciano il tempo che trovano, ma è una parola che dà speranza, che accende una luce.
E siamo al terzo simbolo: il cero. “Non ci ardeva forse il cuore nel petto?”: c’è una fiamma che si è accesa in loro. “Resta con noi perché si fa sera”: c’è una luce che si sta spegnendo. Il Signore è luce non perché ci spieghi tutto quello che accade, non perché attraverso la sua parola noi abbiamo una consapevolezza piena del perché delle cose, ma perché accende nel cuore una speranza che va oltre tutto ciò che si vede, che va oltre persino la morte.
Ma il riconoscimento pieno avviene alla mensa, quando Gesù ripete il gesto dell’ultima cena, quando Gesù spezza il pane e si offre come cibo: l’altare. Il Signore viene riconosciuto pienamente quando si accetta che lui ami fino in fondo; cosa che per esempio aveva faticato pochi giorni prima ad ammettere Pietro, quando non voleva lasciarsi lavare i piedi: “Tu lavi i piedi a me?”… Pietro aveva faticato a sentirsi destinatario di un amore così grande; i due discepoli invece riconoscono il Signore quando si offre come cibo, perché Dio lo si riconosce quando lo si avverte come un Dio che ama, un Dio che è per te. E allora comincia il viaggio di ritorno; nonostante la fatica degli undici chilometri, i discepoli li riprendono in senso inverso, in piena notte, perché hanno capito che non possono tenere per loro la gioia dell’incontro con il Signore.
Chiediamo di fare la stessa esperienza, perché il discepolo anonimo è ciascuno di noi. Luca ricorda questo incontro con il Signore risorto una cinquantina di anni dopo, quando scrive il suo vangelo, proprio perché ciascuno di noi si senta l’amico di Cleopa, l’altro discepolo, che cammina al fianco del Signore. Chiediamo che la nostra fede sia una fiamma che si accende nel cuore, che non spegniamo mai la luce della speranza anche nelle difficoltà, nelle sofferenze; che sentiamo questo Signore risorto che cammina delicatamente con noi e ci vuole fare capire in tutti i modi quanto ci ama.