“Se tu sapessi chi è colui che ti chiede da bere”. Chi è che chiede da bere? Nel corso di questo intenso colloquio tra Gesù e la donna samaritana, questa identità misteriosa (chi è colui che ti chiede da bere) viene pian piano svelata attraverso cinque passaggi, cinque qualifiche di Gesù: la peggiore è la prima, poi si va in crescendo. Gesù è un giudeo nemico: così lo vede la donna quando, arrivata al pozzo, sbircia e coglie questa figura. “Come ma tu che sei giudeo chiedi da bere a me che sono una donna samaritana?”: c’era odio tra giudei e samaritani. Nel corso del dialogo però la donna è presa dal dubbio che lui sia più grande del padre Giacobbe perché promette un’acqua che zampilla per sempre, mentre Giacobbe aveva semplicemente costruito un pozzo: dunque un patriarca. Poi le viene addirittura il sospetto che sia un profeta quando indovina il suo passato burrascoso. Infine la donna va a dire in giro che probabilmente è il Messia. E come ultimo passo i suoi concittadini dicono: è il salvatore del mondo. Da giudeo nemico a salvatore del mondo: è un cammino di svelamento progressivo di Gesù: lo conoscono un po’ alla volta, quasi per dirci che Gesù lo si impara a conoscere gradualmente e che solo nel dialogo con lui è possibile capire qualcosa della sua identità.
Ci sono due particolari importanti nell’episodio, che possono sfuggire ad una prima lettura: il primo è l’orario. “Era circa mezzogiorno” – dice Giovanni – quando arriva la donna e trova Gesù al pozzo. Perché questa annotazione? Mezzogiorno non è l’ora in cui si va ad attingere l’acqua; quando le donne normalmente andavano ad attingere acqua alle fontane o ai pozzi, specialmente quando, come in questo caso, la sorgente si trovava lontano dal paese, andavano all’alba e attingevano per tutta la giornata. Mezzogiorno è l’ora più calda: fare fatica, sudare in quell’ora, portare a casa l’acqua solo per il pomeriggio: non è l’ora giusta. Evidentemente quella donna non voleva mettersi in fila con le altre, non voleva trovare occasioni di confronto e di dialogo, non voleva dare adito al chiacchiericcio: vista la sua situazione affettiva; già da questo piccolo particolare, si intuisce che era considerata nel paese una “poco di buono”. Di qui anche la sorpresa amara nel trovare al pozzo qualcuno, oltretutto un uomo, e un uomo giudeo. Il secondo particolare è che la donna poi dimentica l’anfora: lascia l’anfora al pozzo e corre al paese per dire che forse ha incontrato il Messia. Dimentica l’anfora perché ormai è stata estinta una sete diversa. L’anfora è il simbolo di una sete materiale, ma la donna aveva una sete esistenziale, aveva bisogno di un’acqua che zampilla per la vita eterna.
Come avviene questo passaggio, questa scoperta graduale di Gesù, questo dialogo che dalla diffidenza iniziale sfocia in una sorta di confessione? Avviene attraverso una frase inattesa del Signore: “Dammi da bere”. La donna poteva aspettarsi da un giudeo, da un nemico, una frase di disprezzo; al massimo poteva aspettarsi una frase di sa13luto, di comprensione: le sarebbe apparso strano ma avrebbe avuto certamente un effetto buono. Invece Gesù dice una frase che manifesta un bisogno, che esprime una necessità: Dammi da bere. La sorpresa capovolge la situazione: io ho bisogno di te – dice alla samaritana – io ho sete, tu puoi fare qualcosa per me; ed è proprio questo strano capovolgimento, questa zona buona che Gesù trova nella samaritana pur conoscendo tutta la sua vita e tutte le sue traversie, ciò che cambia l’atteggiamento della donna, tanto da indurre anche lei a dire a un certo punto: “Dammi di questa acqua”; anch’io adesso ti esprimo la mia sete, il mio bisogno, la mia povertà.
Tra i tanti spunti di questo stupendo incontro possiamo ritenere questo: il Signore ha sete, il Signore ha bisogno della nostra acqua. Certo, noi sappiamo che è molto più vero l’inverso: noi abbiamo un gran bisogno di senso della vita, abbiamo una sete di affetti, di riconoscimenti, abbiamo sete di relazioni vere, però lui non ha paura di esprimere a noi la propria fragilità perché è il suo modo per dirci; non ti ritenere poco di buono, c’è una zona buona dentro di te, ci sono delle risorse, tu puoi fare qualcosa per me. E’ per questo che san Paolo usa l’espressione, piuttosto audace, noi siamo collaboratori di Dio: significa che il Signore è così buono che vuole una mano da noi; se Gesù avesse puntato il dito contro questa donna – come probabilmente i suoi concittadini – non sarebbe scattato nulla, lei non avrebbe mai espresso la propria sete interiore; se scatta invece una conversione è proprio perché Gesù mostra la sua fragilità. Dimostrando la sua fragilità mostra la ricchezza che rimane nella donna. Per il Signore siamo ricchi, perché per quanto fragili, per quanto difettosi, siamo sempre figli.