Omelie del Vescovo Erio nella Solennità del Natale del Signore

Omelia nel giorno di Natale
Duomo di Carpi e Duomo di Modena

– Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6-14; Gv 1,1-18 –

La vicenda di Gesù Cristo non è stata una commedia, ma nemmeno una tragedia. Non è stata certo una commedia. Giovanni, quando scrive “il Verbo si fece carne”, intende proprio dire che il Figlio di Dio è nato da Maria, cioè, ha preso carne e sangue da una donna, mantenendo la sua natura divina: l’Altissimo si è mescolato con la fragilità umana, per quanto possa scandalizzare dal punto di vista religioso. I primi cristiani, infatti, si sentivano imbarazzati nel credere a un Dio che prende davvero un corpo umano. Era inaccettabile sia per gli ebrei che per i greci. È vero che entrambe le culture attendevano un intervento divino, ma non potevano immaginare che scendesse Dio in persona sulla terra. Gli ebrei erano arrivati a dire al Signore, con il profeta Isaia: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63,19); ma era un’esagerazione retorica, per gridare il bisogno di salvezza del popolo. E i greci erano arrivati ad auspicare, con Platone, che di fronte all’impossibilità umana di trovare un senso pieno alla vita e alla morte, il divino stesso si rivelasse a noi (cf. Fed. XXXV, 85 c-d). La speranza di un intervento di Dio era dunque diffusa nel mondo antico. Ma il compimento supera ogni attesa: e Dio stesso, nel Figlio, si fa carne e spiazza tutti: nessuno avrebbe fantasticato un Dio così fragile; un Dio che viene concepito, partorito, allattato, curato; e poi un Dio che mangia, beve, dorme, e che viene perfino crocifisso, come un brigante. Un Dio così debole era inimmaginabile. Ma per i cristiani è proprio così. L’incarnazione non è una commedia, come se il Figlio di Dio avesse messo una maschera e recitato il copione, fingendo di essere uomo. Invece il Verbo si è veramente fatto carne in Cristo. Lui, che è “della stessa sostanza del Padre” – lo ripetiamo da 17 secoli nel “Credo” – è diventato anche “della stessa sostanza” di noi, esseri umani.

Vista però la morte in croce, forse la vicenda di Cristo è stata una tragedia? Sembra averne i tratti. Il protagonista, Gesù, deve affrontare tanti conflitti: con i potenti del suo tempo, che lo contrastano e lo perseguitano fino alla condanna; con le folle, che prima lo acclamano e poi si assottigliano e nel momento decisivo gridano in favore di Barabba; con i suoi stessi discepoli – per questo Giovanni dice che “venne fra i suoi e i suoi non lo hanno accolto” – al punto che lo abbandonano quanto la sorte gli è contraria. E simile agli antichi eroi, che si trovavano a combattere anche con gli dèi, arriva persino a lottare con il Padre: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34). Le tragedie però terminavano male, perché i protagonisti finivano per soccombere al destino inevitabile, che aveva già decretato ogni cosa. Gesù invece non ha a che fare con un destino cieco, ma con un Padre misericordioso. La sua esistenza, passione e morte comprese, è stata vissuta all’insegna di scelte libere, non di situazioni fatali. Ha scelto sempre di amare, nonostante tutto, anche quando amare implicava incomprensioni e sofferenze. E la sua fine non è stata la tomba, ma la gloria. Giovanni ce lo ha appena detto: “abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito”. Se la vicenda di Gesù non è stata una commedia, perché si è veramente fatto carne, non è stata neppure una tragedia, perché è veramente risorto.

Come si può allora qualificare la storia di Gesù? Forse come un dramma, più serio della commedia e meno triste della tragedia. Il dramma mette in campo i conflitti umani in modo realistico, senza però esasperarli, e sa trovare il senso degli avvenimenti. Non è però un dramma qualsiasi, ma un dramma che trasmette una buona notizia: “a quanti lo hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Noi non siamo solo spettatori del dramma dell’incarnazione, ma se Gesù è il protagonista, noi ne siamo attori. Siamo anche noi figli nel Figlio, e così partecipiamo della vita di Cristo, la condividiamo. Le nostre gioie, lasciate a loro stesse, diventerebbero parti del copione di una commedia; le nostre sofferenze, lasciate a loro stesse, diventerebbero parti del copione di una tragedia. In lui, invece, le tristezze e le gioie trovano senso: diventano esperienze di Vangelo. Ecco la parola che meglio di tutte esprime la vicenda del Figlio di Dio: “Vangelo”, lieto annuncio di risurrezione, promessa di eternità negli spezzoni del tempo, vittoria della vita sulla morte. Quando abbiamo il coraggio di essere attori, non solo spettatori, del Vangelo di Gesù, adottando lo stile delle Beatitudini, ci rendiamo conto che nulla della nostra esistenza va perduto, né i momenti faticosi né quelli lieti. Tutto prende significato in Cristo: questo Dio così umano, questo Altissimo così vicino, Purché ci facciamo, come lui, attori di bene, umili operatori di pace.

Erio Castellucci

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Omelia nella Messa della notte
Duomo di Modena

Natale. Gesù è la pace che si adagia nelle mangiatoie dei nostri cuori
La celebrazione della notte in Duomo a Modena, Castellucci: “l’umiltà è lo stile dell’amore di Dio

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce”, è il messaggio risuonato nella Santa Notte di Natale per annunciare la nascita di Gesù. A Carpi in Cattedrale sono state due le celebrazioni della Notte, alle 22 e alle 24, la prima presieduta da don Tinu Thommassery, vicario parrocchiale, animata dalla Corale Savani, e la seconda presieduta dal vicario generale mons. Gildo Manicardi, con la Schola Cantorum. Il vescovo Erio Castellucci, ha presieduto la solenne celebrazione eucaristica della Notte di Natale in Duomo a Modena, questa mattina alle 9 celebrerà la messa per i detenuti e il personale del carcere di Sant’Anna a Modena e poi alle 10.45 sarà in Cattedrale per la messa del Giorno di Natale. Di seguito l’omelia di mons. Castellucci nella Notte di Natale.

Come un abile regista, che usi la tecnica dello zoom, Luca avvia il suo racconto con un’inquadratura molto ampia: Cesare Augusto ordina il censimento di “tutta la terra”. La ripresa fa leva sulla capitale dell’impero, Roma, e di lì l’evangelista invita noi lettori a guardare dall’alto l’intero mondo allora conosciuto, sottomesso in gran parte all’imperatore Ottaviano Augusto, che regnò per oltre quarant’anni. Poi la regia di Luca si concentra su un’area molto più piccola, la Siria, di cui era governatore Quirinio. All’epoca la Giudea apparteneva alla provincia di Siria. Ma la macchina da presa non si ferma nemmeno su questo territorio: Luca concentra l’obiettivo su una piccola cittadina della Giudea, abitata in gran parte da pastori: Betlemme. Questo è il villaggio in cui Maria dà alla luce Gesù: ben lontano dal centro dell’impero.

Non basta però nemmeno questa inquadratura così ridotta. L’evangelista punta la cinepresa su un particolare irrilevante e del tutto inaspettato: una mangiatoia. Al centro di tutta la scena, che comincia da Roma, sorvola la Siria e plana su Betlemme, c’è una stalla; anzi, nemmeno una stalla tutta intera, ma una piccola parte, la mangiatoia. È così importante per Luca questo luogo, che fa parte addirittura del solenne annuncio degli angeli ai pastori: “troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Luca poi ci riporta di nuovo in alto, puntando l’obiettivo dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande: “gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace”. Lo zoom è volato rapidamente dalla mangiatoia al cielo, dal luogo simbolo degli animali al luogo simbolo del divino.

In mezzo però c’è il corpo di un neonato, il figlio di Dio e di Maria, che con la sua sola presenza dà alla mangiatoia la dignità della volta celeste. Non poteva abbassarsi più di così: ed ha accettato la sfida della stalla per farci capire quanto e come ci ama. Gli angeli avevano annunciato ai pastori che Dio ama l’umanità: pace agli uomini, che Dio ama. E indicando come segno la mangiatoia – non una reggia, non un palazzo e nemmeno un albergo – avevano suggerito lo stile dell’amore di Dio: l’umiltà. Gesù passa inosservato ai potenti del mondo: né Cesare Augusto né Quirinio vengono a sapere di lui. Le prime tracce di Cristo nelle fonti romane compariranno più di un secolo dopo, nelle opere latine di Plinio, Svetonio e Tacito. L’imperatore e il governatore l’avevano registrato nel censimento, e forse il nome di “Gesù figlio di Giuseppe” era stato scritto in qualche catalogo dell’amministrazione romana. Ma non è stato notato, è passato inosservato, come uno dei tanti. Questo è lo stile dell’amore di Dio. Si espande senza imporsi, si radica senza violenza, entra nell’animo senza forzarlo. Questa sarebbe la pace sulla terra, se accogliessimo il figlio di Dio neonato; pace troppo spesso rifiutata da chi abita i palazzi del potere ordinando le guerre. Questa è la pace, che si adagia nelle mangiatoie dei nostri cuori, ogni volta che facciamo spazio ai piccoli, ai fragili, a chiunque attende di essere accolto e amato.