Gen 12,1-4a – Sal 32/33 – 2Tm 1,8b-10 – Mt 17,1-9
Omelia dell’Arcivescovo
“La voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo, mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,17-18), scriverà qualche decennio dopo l’apostolo Pietro, parlando dell’episodio della Trasfigurazione. E Giovanni – un altro dei tre che era presente – scriverà a sua volta: “Noi abbiamo visto la sua gloria” (Gv 1,14), riferendosi anche alla Trasfigurazione. Il terzo, Giacomo, non potrà scrivere nulla, perché sarà il primo degli apostoli martirizzato pochi anni dopo la resurrezione di Gesù. Evidentemente in questi tre apostoli è rimasta incisa l’esperienza della Trasfigurazione. Non che sia stata facile: il Vangelo usa due verbi abbastanza forti per dire che Gesù si è portato con sé Pietro, Giacomo e Giovanni; dice che “Gesù li prese con sé li condusse su un alto monte”. Non è un invito: è un prenderli per mano, quasi uno spingerli, perché a nessuno fa piacere salire; la salita è segno di una fatica, di un impegno. Poi la reazione dei tre è molto dissonante dalla scena sul monte: Pietro con la consueta impulsività, quando vede Gesù, Mosè ed Elia trasfigurati, dice: “Fermiamo il tempo, facciamo tre capanne, vogliamo restare qui”; non riesce a comprendere – ed è abbastanza logico – che Gesù stava dando semplicemente un antipasto della Resurrezione, che non era quello il momento di fermare il tempo, non era ancora giunta l’ora della gloria, perché Pietro – come tutti noi – vorrebbe fermare il tempo della gloria (“è bello per noi stare qui”), eternizzare i momenti belli, senza passare attraverso la fatica, l’impegno, il sacrificio. E Gesù, pazientemente, riconduce lui e i suoi compagni a valle: non è ancora questo il momento di fermare il tempo.
Il Signore inviterà di nuovo quei tre apostoli su un monte, un altro monte. Il Vangelo di Matteo dice che la sera dell’ultima Cena, dopo avere celebrato con i suoi discepoli il rito pasquale, Gesù salì sul monte degli ulivi, di fronte a Gerusalemme; e di nuovo l’evangelista usa questo verbo forte: condusse con sé Pietro, Giacomo e Giovanni. E’ un’altra fatica: e questa volta reagiscono con minore impulsività, semplicemente addormentandosi. Gesù prega – una preghiera angosciata al Padre – controllando ogni tanto che i tre partecipino alla sua preghiera, ma li trova sempre addormentati, tanto che alla fine si rassegna: “Dormite ormai, e riposatevi: l’ora è giunta” (cf. Mt 26,45). I tre discepoli non riescono a fare compagnia a Gesù nel momento della passione: avrebbero voluto fermare il tempo della gloria, ma non riescono a sopportare il tempo della passione; e infatti sul monte decisivo non ci saranno. Secondo il vangelo di Matteo, attorno al Calvario sono presenti solo alcune donne, tra le quali la madre dei figli di Zebedeo, cioè proprio la madre di Giacomo e Giovanni, ma loro no: non accettano di accompagnare Gesù nel momento della fatica, del dolore. Perché?
Tutto questo è molto umano, poiché nessuno di noi sale volentieri sui monti del dolore; quando invece viviamo un momento di gloria, un’esperienza di gioia, vorremmo fermare il tempo: lì sì che ci interessa incontrare il Signore. Lui però ci rilancia sempre questa logica nuova: non c’è alternativa fra il monte della Passione e il monte della Trasfigurazione, tra il Tabor e gli Ulivi: bisogna sempre passare dal Calvario, cioè dal dono di sé. Il dono di sé è la chiave della gioia che dura. Noi ce ne accorgiamo quotidianamente nella nostra vita, non c’è bisogno di fare esperienze di trasfigurazione come Pietro, Giacomo e Giovanni; ci rendiamo conto che le mete più belle e durature sono quelle che abbiamo guadagnato; i traguardi che ci cascano addosso ci lasciano come prima, i traguardi che invece abbiamo conquistato e sudato, salendo sul monte, si incidono nel nostro cuore.
Non è possibile contemplare Gesù trasfigurato, se non lo si guarda sfigurato. E’ ciò che precisamente Pietro, Giacomo e Giovanni volevano evitare. L’hanno evitato fisicamente non andando al Calvario, poi in realtà hanno dato tutti e tre la loro vita per lui: hanno capito che ogni meta bella e duratura si guadagna attraverso il dono di se stessi. Questo è uno dei messaggi più chiari della Quaresima. La Quaresima pensata come un cammino graduale dal deserto al monte, è un momento di purificazione gioiosa: noi ci alleniamo per guadagnare la meta, non solo la meta dell’eternità, ma le piccole mete quotidiane. Quando noi andiamo in una cima appenninica o alpina, è molto diverso se la raggiungiamo con una funivia o una seggiovia oppure se la raggiungiamo a piedi. Certo, a piedi c’è da faticare, c’è da sudare, ma una volta che ci siamo è nostra; con la funivia e la seggiovia è più comodo, ma poi non la sentiamo così tanto nostra. Gesù ci fa vedere la meta: trasfigurazione e il Tabor, e ci dice: devi passare ogni giorno attraverso il dono di te, attraverso il Calvario, che non vuol dire tirarsi addosso le sofferenze, ma vuol dire decidere di amare ogni giorno. Allora la meta diventa nostra.
Ringraziamo il Signore perché ci incoraggia sempre: nei momenti di difficoltà e di dolore ci fa capire che c’è la trasfigurazione, che l’ultima parola è “risurrezione”; e nei momenti di gioia e di allegria ci fa capire che dobbiamo tenere i piedi per terra e che la vita ha senso se si fa dono quotidiano.