Is 52,7-10; Sal 97; Eb 1,1-6; Gv 1,1-18
Il Vangelo di Giovanni inizia come la Bibbia. Il primo libro della Bibbia – il Libro della Genesi – inizia con le parole: In principio, e queste sono anche le prime parole del vangelo di Giovanni. In principio: ma quando? Genesi e Giovanni si riferiscono a due principi diversi, potremmo dire due tempi diversi, se non fosse che in Dio non c’è un tempo, almeno non un tempo come quello che scorre sulla terra.
La Genesi comincia così: “In principio Dio creò il cielo e la terra”, quindi è il principio stesso del mondo, è il principio del tempo, è il principio della nostra storia; Giovanni invece va più indietro, va oltre, va in profondità: “In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio”: cioè Giovanni entra nel cuore stesso di Dio, prima del tempo, prima del mondo, era il Verbo. Con il Vangelo di Giovanni si apre la possibilità di entrare nella vita di Dio prima ancora e al di sopra della creazione del mondo, della nostra storia. E c’è una sorpresa: Dio non è solo, la natura stessa di Dio è relazione, in Dio c’è il legame; si potrebbe tradurre anche così la parola Logos: Verbo, Legame, Relazione. C’è dunque comunicazione in Dio. Dio non è un essere solitario, non è tutto compreso in se stesso: Dio è legame, Dio è rapporto, ed è per esprimere la sua stessa natura che mette in moto il mondo, perché se uno è in se stesso legame, ha il desiderio di esprimere questo legame; in Dio c’è dunque anche il Verbo.
Ma poi c’è un’altra sorpresa nel Vangelo di Giovanni, una sorpresa ancora più grande per il credente; che Dio fosse legame, che ci fosse una Parola in Lui, lo avevano intuito anche alcuni filosofi, ma che questa Parola si facesse carne era del tutto inatteso: “Il Verbo si fece carne”. L’Eterno si fa corpo.
“Carne”, la parola che usa Giovanni non è semplicemente la natura umana come la intendiamo noi. Noi diciamo – e l’abbiamo sentito anche nella Colletta – che ha assunto la natura umana: però detto così sembra generico, non ci fa cogliere le sfumature di questa natura umana. Il Verbo si è fatto carne, cioè ha preso un’umanità fragile, un’umanità delicata, un’umanità ferita: ecco cosa significa che il Verbo si è fatto carne.
Oggi in Chiesa ci troviamo di fronte due immagini, che rappresentano l’inizio e la fine dell’incarnazione: l’immagine della culla e l’immagine della croce. Il Verbo si fa carne nella fragilità di un corpo, di un concepito, di un neonato: più fragile di così è difficile pensarlo. Il neonato attira affetto, tenerezza, relazione, proprio perché è il simbolo stessa della fragilità, è una calamita che attira i nostri affetti e li risveglia; non c’è nulla di più delicato di un bimbo appena nato. “Si è fatto carne”, significa che ha voluto passare attraverso il grembo e attraverso la culla; ma (sorpresa nella sorpresa!) il suo farsi carne arriva davvero fino in fondo, fino alla croce, perché la croce è l’estrema fragilità, è la ferita più grande che si possa immaginare. La croce è il segno del disprezzo, dell’esclusione dalla vita sociale, civile, religiosa; la croce è il segno della vergogna, addirittura per gli ebrei è una sorta di maledizione divina: più carne di così non poteva farsi, ha davvero condiviso tutto. E tra la culla e la croce ci sono tutte le esperienze della nostra vita: c’è la tenerezza e c’è il disprezzo, c’è l’accoglienza e c’è il rifiuto, c’è l’amore e c’è l’odio, quasi a dire che non ha lasciato fuori nulla nel suo farsi carne. Questo Verbo che è nel seno del Padre dall’eternità si è davvero giocato la vita per noi attraversando tutte le fasi e tutte le esperienze della nostra esistenza, cioè la nostra carne.
Una volta, visitando un Istituto a Ravenna – l’Istituto Santa Teresa fondato da un sacerdote un secolo fa – nel quale sono accolte alcune centinaia di persone gravemente disabili o molto malate, nel reparto dei bambini ho notato all’ingresso la raffigurazione scultorea di un bimbo che riproduceva Gesù con l’aureola, ma questo bimbo Gesù non era adagiato sulla culla, era inchiodato sulla croce. Quella è la sintesi: il Verbo si è fatto carne, ha raccolto le due esperienze più delicate e più fragili che possiamo immaginare: l’infanzia e la sofferenza: e ha espresso con queste scelte anche le proprie preferenze: il Signore cioè preferisce manifestarsi più che nelle situazioni di potenza e di gloria, nelle situazioni di fragilità e debolezza, e queste le rende manifestazioni di gloria – come abbiamo sentito anche nella seconda lettura – è irradiazione della gloria del Padre… ma entrando nella nostra carne. Questo è il miracolo che fa il Signore e che ci chiede di continuare a fare: vederlo, apprezzarlo, accoglierlo, curarlo nella carne, specialmente nei piccoli, nei fragili, negli ammalati e nei sofferenti.
La Chiesa è tanto più fedele a questo Verbo che si fa carne quanto più si china sulle ferite degli uomini: e questo il Signore lo chiede a tutti noi. Così sarà un buon Natale.
+ Erio Castellucci