(Gl 2,12-18; Sal 50; 2Cor 5,20-6,2; Mt 6,1-6.16-18)
La buona notizia della Quaresima non è la nostra conversione è la conversione di Dio, per quanto sembri strana questa espressione. L’abbiamo sentita due volte nella lettura del profeta Gioele quando egli dice che il Signore è pronto a ravvedersi riguardo al male e poi aggiunge: “Chi sa che non cambi e si ravveda e lasci dietro a sé una benedizione?”. È lo stesso verbo che noi usiamo per dire di convertirci: Dio si converte, e si converte non perché abbia dei peccati ma perché si volge verso di noi. Lo dice ancora il profeta Gioele: con “misericordia” e “compassione”. Dio è sempre volto verso di noi, è sempre convertito nei nostri confronti. Siamo noi che a volte apriamo la porta rispondendo con la nostra conversione, quindi lasciando entrare la sua misericordia, e a volte invece la porta la chiudiamo o addirittura la spranghiamo… e la sua misericordia, la sua conversione, non può arrivare al nostro cuore. Questa è la prima e grande e bella notizia della fede biblica, che Gesù Cristo ha poi tradotto non solo annunciandola, ma incarnandola, perché lui è il volto della conversione di Dio verso di noi, lui si è davvero rivolto totalmente a noi.
Come possiamo dunque lasciar entrare Dio che si converte, che si volge verso di noi con amore? Gesù ci ha indicato alcuni strumenti per la nostra conversione, ma non è una conversione che possa fare conto del nostro livello morale, delle azioni da compiere. È una conversione che respira la stessa logica dello scultore, che plasma l’immagine togliendone qualcosa. San Paolo lo dice con una forma passiva: non “riconciliatevi con Dio”, ma “lasciatevi riconciliare con Dio”. Noi, per lasciare entrare la grazia di Dio, il suo amore, la sua misericordia, dobbiamo togliere qualcosa dal nostro cuore. Gesù chiede di togliere qualcosa, chiede la sobrietà. Nel rapporto con gli altri: “quando fai l’elemosina, non suonare la tromba”, non fare vedere tutto il bene che compi. Che l’elemosina, la condivisione sia preoccupata di accadere, di compiersi, non di mostrarsi. Occorre una sobrietà nel condividere. L’elemosina intesa nel senso che Gesù ha voluto dare a questo termine è proprio la condivisione, non l’esibizione della carità.
Sobrietà anche nel rapporto con Dio: quando preghi, “non fare come gli ipocriti che stanno ritti nelle sinagoghe negli angoli delle piazze, ma prega nel segreto”, dice Gesù. Anche quando ci troviamo insieme in assemblea, la preghiera è sempre una preghiera che deve partire dal cuore, dal segreto di noi stessi, non una preghiera esibita, dove si moltiplicano le parole per “affaticare gli dèi”, come dicevano gli antichi latini. La preghiera cristiana è preghiera del cuore, preghiera che parte dall’interiorità, si preoccupa di essere sincera, non di essere lunga e verbosa.
La terza dimensione della sobrietà per aprire le porte alla misericordia è espressa da Gesù richiamando la pratica del digiuno. Il digiuno consiste pure nel togliere qualcosa alla nostra mensa: e potrebbe anche non essere la tavola, bensì un’altra mensa che ciascuno può scegliere a proprio piacimento. Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta, perché ciascuno di noi è attaccato ad alcune pratiche o ad alcuni beni dai quali fa fatica a prendere le distanze. E Gesù dice che c’è una opportunità di essere sobri anche nei confronti dei beni, per farci capire che noi non siamo dipendenti, che noi dobbiamo lasciare uno spazio di libertà all’azione di Dio, altrimenti facilmente i beni prendono il sopravvento e diventano i nostri idoli.
La Quaresima, dunque, è un tempo opportuno per far incontrare la conversione di Dio verso di noi con la nostra conversione verso di lui. Abbiamo detto nel Salmo di essere peccatori, abbiamo ripetuto cinque volte “perdonaci, Signore: abbiamo peccato”. Ma se intendiamo bene questa espressione, se comprendiamo bene il tempo della Quaresima come tempo dell’incontro tra le due conversioni, quella di Dio che bussa al nostro cuore e quella di noi che siamo chiamati ad aprirgli, i peccati non sono frutto del senso di colpa. Una cosa è il senso di colpa, un’altra cosa è il senso del peccato. Il senso di colpa è utile come un allarme per segnalare la distanza tra un’azione e l’ideale che io ho interiorizzato. Il senso di colpa è l’allarme che mi segnala quanto sono lontano dall’ideale che avrei dovuto raggiungere. È utile, perché senza il senso di colpa noi cadremmo nelle azioni più estreme, più criminali, mentre il senso di colpa ci arresta e ci interroga. Però, proprio come un allarme, è utile se ad un certo punto si spegne e lascia il posto a un altro atteggiamento che è il senso del peccato. Il senso del peccato mette al primo posto la misericordia di Dio, non l’ideale che ciascuno di noi ha, ma l’amore che Dio ha per ciascuno di noi. Il senso del peccato non dice “ho sbagliato, sono fatto male, sono una persona da censurare”, non fa i conti semplicemente alla prima persona singolare; il senso del peccato fa i conti con l’amore di Dio, “ho risposto male all’amore di Dio”, ma il suo amore è molto più grande del mio peccato. Giuda è stato schiacciato dal senso di colpa, Pietro è stato salvato dal senso del peccato, perché ha incontrato la misericordia di Gesù e l’ha accettata.
Domandiamo al Signore che questa Quaresima sia per noi un cammino gioioso, spalancando la porta del nostro cuore al Dio che si converte a noi e ci vuole visitare con la sua misericordia.
+ Erio Castellucci