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– Is 61,1-3,6,8b-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21 –
Sono quasi sicuro che nessuno protesterà se tengo la predica corta: è scomodo indossare le mascherine per tanto tempo, e questa solenne liturgia è già molto lunga di suo.
Ringraziamo il Signore, prima di tutto, per il fatto di essere qui. Da tre mesi la domanda: “come stai?” non è affatto banale o scontata. Alcuni di noi, del resto, hanno perso amici e familiari a causa della pandemia; e tutti conosciamo persone ammalate, che hanno sofferto o perché colpite dal virus o perché, vivendo altre malattie, si sono viste rimandare esami, cure e interventi. Questo clima di particolare sofferenza ci invita a rileggere il Vangelo di oggi prestando un’attenzione speciale alle quattro categorie di persone a cui Gesù si dice inviato: poveri, prigionieri, ciechi, oppressi. Di solito, chi tra noi ha assunto un ministero nella Chiesa, è portato a identificarsi con l’atteggiamento di Gesù – mantenendo certo il senso delle proporzioni – e la stessa liturgia crismale porta a concentrarsi sulla missione da portare agli altri. Ma forse oggi vale la pena sentirsi più che altro destinatari della missione.
Gesù entra di sabato nella sinagoga di Nazareth. Il sabato per gli ebrei il giorno della inattività: giorno nel quale Dio stesso era rimasto a riposo, dopo la fatica della creazione. La festa del sabato non era intesa alla nostra maniera: chiasso, movimento, divertimento, canti e balli; era intesa come tempo della presenza esclusiva di Dio, rifiuto di lasciarsi mangiare dalle attività e dal lavoro, primato della gratuità sul profitto. E quel sabato a Nazareth Gesù non fa nulla: semplicemente riecheggia la Scrittura, citando Isaia, e poi ripone il rotolo ed espone se stesso. Noi abbiamo vissuto un sabato forzato, una lunga inattività rispetto ai nostri soliti calendari, ai programmi pastorali, alle iniziative parrocchiali e associative. Siamo stati sorpresi dal sabato, quasi costretti a dedicare più tempo alle relazioni e meno all’organizzazione, più alle persone e meno agli orari, più alla preghiera e meno all’azione.
Di sabato dunque, nella sinagoga di Nazareth, Gesù lancia la sua missione a poveri, prigionieri, ciechi e oppressi. Siamo noi i poveri ai quali porta il lieto annuncio. Ci siamo scoperti forse ancora più poveri di quanto pensavamo; le nostre comunità si sono impoverite; siamo e saremo vicini come potremo a coloro che faticano a tirare avanti economicamente e stanno perdendo lavoro e fiducia. E siamo noi i prigionieri ai quali Gesù vuole offrire la liberazione: abbiamo vissuto alcuni giorni come se fossimo incatenati, sia per la restrizione nei movimenti, sia soprattutto per un peso nell’anima, che in quaresima diventava sempre più insistente. Alcuni di noi hanno sperimentato anche l’apprensione della quarantena. Siamo noi i ciechi ai quali Gesù promette la vista. Presi dalle cose da fare, quasi macinati dagli impegni, i nostri occhi erano velati nei confronti di tanti drammi sui quali la pandemia ha tolto il coperchio: miserie, ingiustizie e patologie di ogni tipo esistevano anche prima ed esisteranno anche dopo, ma finché non siamo stati colpiti direttamente, eravamo piuttosto distratti. Siamo noi, infine, gli oppressi che Gesù vuole rimettere in libertà. Il verbo tradotto con “oppressi”, usato solo qui in tutto il Nuovo Testamento, contiene l’idea di fragilità, inconsistenza. Si potrebbe quindi tradurre con “infragiliti”. Abbiamo infatti toccato con mano che la nostra vita è vulnerabile come l’erba e il fiore del campo (cf. Is 51,12; Sal 103,15).
Ma Gesù chiude la citazione con una nota giubilare: dice di essere stato consacrato per “proclamare l’anno di grazia del Signore”. Lui può liberarci dalle nostre paure e debolezze, perché prima le riveste e le attraversa. Proclama l’anno di grazia perché prima vive le nostre disgrazie e vi innesta un cuneo di speranza. Il suo metodo non è mai quello di consigliare dall’alto, ma quello di sollevare da dentro. Ci aspetta un “anno di grazia del Signore”: non sarà un anno facile, perché dovremo abituarci a mantenere le misure di precauzione, distanziamento, sanificazione. Ma se lo vivremo come anno “sabbatico”, nel suo senso vero – primato delle relazioni con il Signore e i fratelli, condivisione, prossimità soprattutto a chi più fatica – sarà davvero un “anno di grazia”. Anche a noi Dio sembra ripetere quanto disse una volta al superattivo e vulcanico apostolo Paolo: “ti basta la mia grazia: la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,9).
+ Erio Castellucci