Monsignor Ermenegildo Manicardi, vicario generale
Fratelli e sorelle carissimi,
la celebrazione di questa sera vuole essere — e lo è —un’importante esperienza di comunione e di universalità. Molti siamo radunati nella fede, ma non pochi sono venuti spinti da un senso di solidarietà e dal bisogno umano di ricordare e di elaborare la sofferenza grave, che la nostra società sta vivendo da oltre un anno per la tragedia delle morti a causa del Covid 19.
1. Universalità e fratellanza
La pandemia è stata purtroppo spietatamente universale: noi questa sera vogliamo rispondere alla sua globalità con una coralità di ricordo e di fraternità, che non escluda proprio nessuno. In coloro che ricordiamo appare chiaro come tutti noi siamo fratelli collegati da infiniti fili, direi anzi da arterie vive che pulsano sangue e vita. Non siamo solo nella stessa barca a causa del contagio che non risparmia nessuno, come ha ripetuto Papa Francesco. Siamo nella stessa barca perché le nostre vite hanno effettivamente molti riferimenti condivisi e, spesso, gli stessi amici comuni e gli stessi sogni condivisi. Stasera non c’è nessun defunto che qui sia ricordato da uno solo di noi: se avessimo qui le bare, per visitare coloro che abbiamo conosciuto, passeremmo davanti a parecchie di esse.
I valori di questa sera sono il vivo ricordo di tutti gli amici usciti dalla scena di questo mondo in questo modo crudele. Ci unisce la preghiera di molti di noi per superare il rimpianto e il dolore, il desiderio di una elaborazione pubblica del lutto e la consapevolezza della nostra fratellanza profonda. Sì, è vero “Fratelli tutti”! Per esser vivi abbiamo bisogno di essere insieme, di rispettarci con sincerità e non solo per posa o per eleganza di stile esteriore. Abbiamo bisogno di volerci bene per davvero, senza eccezioni e senza esclusione di nessuno.
2. La solitudine nella morte e l’antica devozione a San Giuseppe
Nella morte dei fratelli, che oggi ricordiamo, spesso è stato di grave, ulteriore peso il saperli in una situazione di solitudine e di allontanamento dalle persone amate. La celebrazione di questa sera avviene mentre la liturgia della Chiesa inizia la solennità di San Giuseppe. Per molti secoli, si è pensato molto al momento della morte di Giuseppe di Nazaret per sottolineare che il suo passaggio fu accompagnato dalla presenza di Maria e dal Gesù, il Figlio della sua Sposa/Vergine. In molte chiese dell’epoca barocca c’è un altare a san Giuseppe, rappresentato proprio ammalato, in un imponente letto, con accanto Maria e Gesù in preghiera. In questa devozione si è espressa in maniera sana la speranza di morire nella compagnia dei proprio cari, sostenuti dalla loro cura e assistenza. Una preghiera popolare molto sentita, quasi una filastrocca che veniva insegnata ai bambini è stata lungo: «Gesù Giuseppe e Maria, vi dono il cuore e l’anima mia. Gesù, Giuseppe e Maria, assistetemi nell’ultima agonia. Gesù, Giuseppe e Maria, spiri in pace con voi l’anima mia». Questa invocazione, che potrebbe sembrare piuttosto ingenua, chiedeva che ci fosse evitata la morte in solitudine. Anche l’Ave Maria contiene la preoccupazione di non essere soli nel momento della morte. Molti, nella loro vita, la dicono veramente innumerevoli volte: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell’ora della morte nostra».
Nei giorni difficili della pandemia, mi ha consolato un pensiero che spesso ho trasmesso agli amici. Se i nostri morenti ci sono apparsi soli e isolati, in realtà, Dio non è stato lontano da loro. Dio non ha paura del Covid 19, non teme di contagiarsi, di entrare negli ospedali, nelle sale di rianimazione. Se davvero noi saremmo andati così volentieri dai nostri malati, non possiamo pensare che Dio sia stato lontano da loro. Dio non abbandona il morente, Dio non ha lasciato soli i nostri amici quando morivano. Il ricordo che noi facciamo di loro oggi, è agganciato a quel ricordo che allora il Signore ebbe dei suoi morenti.
3. Il Dio che dà vita ai morti
La seconda lettura della festa di San Giuseppe descrive con intensità la fede di Abramo in Dio «che dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che non esistono». Il Patriarca, chiamato addirittura a sacrificare lui stesso il figlio Isacco, «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli». Ebrei, Cristiani e Mussulmani si considerano, infatti, e sono anche oggi suoi figli. Carissimi amici siamo di fronte alla sfida del credere.
Nella pandemia Dio non ha perso il filo della storia, né il suo affetto smisurato per l’uomo si è smarrito di fronte alla confusione della tragedia. Siamo noi, piuttosto, che rischiamo di perdere nell’estrema difficoltà della pandemia, la speranza, la gioia, la progettualità: c’è, quindi, il pericolo che sciupiamo molte cose e che addirittura ci autodistruggiamo.
Ascoltiamo con fiducia quanto Dio, attraverso Geremia ha promesso al popolo di Dio travolto dalla distruzione bellica e deportato nell’esilio babilonese. Oggi queste parole sono per noi:
«Ti ho amato di amore eterno, per questo continuo a esserti fedele.
Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata, vergine d’Israele.
Di nuovo prenderai i tuoi tamburelli e avanzerai danzando tra gente in festa.
Di nuovo pianterai vigne sulle colline e, dopo aver piantato, i piantatori raccoglieranno (…).
Dice il Signore: «Trattieni il tuo pianto, i tuoi occhi dalle lacrime,
perché c’è un compenso alle tue fatiche» (Ger 31,3-16 passim)
4. La luce delle stelle: non muore mai!
Nel libro Ti voglio bene anche se … c’è un dialogo tra Mini, il cucciolo di volpe che chiede “cosa succede quando non ci saremo più?” e Maxi il padre che cerca di rispondere:
«Mini disse: “E quando non ci saremo più, tu mi amerai sempre? Il nostro amore durerà?”. Maxi strinse Mini e guardarono la luna e le stelle brillare. “Piccola, guarda le stelle, come brillano, come splendono e alcune di loro si sono spente tanto tempo fa. Nonostante ciò brillano sempre sul cielo di sera. E vedi, Mini, l’amore è come la luce delle stelle: non muore mai!» (Debi Gliori, Ti voglio bene anche se …).
5. Allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto
L’Apostolo Paolo, nel suo insuperabile inno alla carità, ha scritto un’ispirata profezia che questa sera può risuonare nel profondo del nostro sentirci fratelli nel tempo duro della pandemia.
«La carità non avrà mai fine … Adesso noi conosciamo in modo imperfetto … Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso … allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!» (1Cor 13,8-13 passim).
Molti dei nostri amici hanno vissuto tanti gesti di carità. I defunti che ricordiamo, che vogliamo onorare, e la cui vita vogliamo percepire ancora vibrante in noi, non sono soltanto un elenco di nomi che vanno sbiadendo: uomini con qualche grandezza, ma ormai irrimediabilmente trapassati. C’è una rete d’amore che essi hanno lasciato e che palpita ancora. Essa fu intessuta con la loro vita, i loro dolori, le loro conquiste: essi hanno contribuito a fissare non pochi dei punti di vita che ora ci sostengono. Intorno a noi ci sono gli oggetti che hanno prodotto, gli stili che hanno inventato, l’effetto delle spinte ad andare in avanti, che ci diedero tanto tempo fa, sono ancora presenti in noi e nei moti del nostro cuore.
Grazie., fratelli Di voi non ricorderemo solo la morte tragica e, ci sembra, inspiegabile, ma quello che siete stati per noi. Vivete nella pace di Dio che nelle ultime ore vi ha provato con il fuoco della tentazione. Ma vivete anche in questo nostro mondo, nelle realtà che ci avete donato e che sono parte essenziale della nostra esistenza.
Amen. Sia lodato Gesù Cristo!