Omelia 77° anniversario del martirio di don Francesco Venturelli
15 gennaio 2023
Quando Giovanni Battista parla, usa molto spesso la particella negativa “non”: “io non sono colui che pensate che io sia”, “io non sono il Cristo”, poi ancora: “io non sono degno di legargli i sandali”. In questa domenica abbiamo sentito per due volte “io non lo conoscevo”. Giovanni è l’uomo del “non”, perché tutta la sua vita è relativa a un altro, a Gesù. Potremmo dire che il Battista è un indice: indica, non vuole mai attirare l’attenzione su di sé, ma la vuole portare su colui che deve venire. Forse l’evangelista ha voluto anche sottolineare, ribadendo questa frase, ovvero “io non lo conoscevo”, la difficoltà che Giovanni ha avuto nel conoscere davvero Gesù. Lo sappiamo bene da Matteo e da Luca, quando raccontano come dalla prigione Giovanni sia stato preso dal dubbio: “sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?”. E tuttavia è rimasto sempre un indice, ha sempre fatto spazio a Gesù e alle sue sorprese.
La testimonianza che Giovanni Battista offre nel Vangelo di oggi fa riferimento a degli animali, per sottolineare chi è Gesù e da chi è accompagnato, dallo Spirito: si tratta dell’agnello e della colomba. Questi due animali destano spontaneamente dei sentimenti positivi. L’agnellino suscita tenerezza, dolcezza e innocenza; la colomba evoca la pace, la fedeltà al proprio nido. Sono significati presenti anche nella Bibbia: nell’Antico Testamento l’agnello era parte di un sacrificio che doveva rappresentare la persona offerente. Chi voleva offrire a Dio un sacrificio puro non poteva certo offrire se stesso, perché nessun essere umano è puro; così si faceva rappresentare da un agnello, simbolo dell’innocenza e dunque anche di una offerta pura e gradita. Sappiamo poi quanto è profonda la simbologia pasquale dell’agnello immolato, mangiato in fretta per poter percorrere la strada dell’esodo, e quanto spazio abbia l’agnello nella liturgia pasquale ebraica. Perciò quando il Battista dice “ecco l’agnello di Dio”, vuol dire anche che in Gesù si concentra tutta la capacità di bene presente nell’essere umano: lui è la vittima pura, poiché è l’unico ad essere davvero puro tra gli esseri umani. Ma non solo. È ingiustamente condannato. Isaia parla di “agnello condotto al macello”. L’evocazione dell’agnello diventa così profezia di ciò che succederà sulla croce. Lì Gesù si mostrerà in maniera indiscutibile come l’agnello di Dio, la vittima pura, ingiustamente sacrificata.
Poi il Battista testimonia che ha contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su Gesù. Il richiamo è alla colomba di Noè, la quale, all’abbassarsi delle acque dopo il diluvio, portò il ramoscello d’ulivo sull’arca. Da quel momento la colomba è diventata simbolo universale della pace. Ma anche in questo caso, come per l’agnello, è un’immagine che sanguina, che sa anche di ferite, perché quando Gesù parla della pace, sembra quasi contraddirsi. Da una parte dice: “credete che io sia venuto a portare la pace? No, vi dico, ma la spada”. Dall’altra parte però proprio il dono dello Spirito è accompagnato dall’augurio di pace. Quando compare nel cenacolo, prima ai dieci poi ai dieci più Tommaso, il Risorto soffia lo Spirito e dice “pace a voi”. Dunque, quale pace è venuto a portare? È facile dire quale pace non è venuto a portare. Non è venuto a portare la pace dell’indifferenza, di chi dice “lasciatemi in pace”, di chi non si prende cura degli altri perché passa accanto, passa oltre le loro ferite. Rispetto a questa pace, Gesù è venuto a portare una spada che taglia via prima di tutto dal nostro cuore l’egoismo. Dunque, la vera pace, come emergeva già il primo gennaio meditando il messaggio del Papa, è prendersi cura, è una pace basata sulla giustizia, non l’indifferenza passa sopra i problemi, le violenze, le ingiustizie, le sopraffazioni, ma un impegno che affronta anche la spada, che si coinvolge e volta si sacrifica, perché è la pace dell’amore, della cura.
Entrambi gli animali hanno dei nemici. L’agnello ha come nemico il lupo, la colomba ha il falco: rapaci che rischiano continuamente di insidiare entrambi gli atteggiamenti, cioè l’offerta di sé, l’agnello, e la cura dell’altro, la colomba. I lupi e i falchi sono sempre in agguato, perché ci sono sempre dentro di noi quelle voci che ci dicono “pensa a te stesso, non impicciarti, lascia perdere, conserva gelosamente la tua esistenza”.
Don Francesco Venturelli non ha ascoltato queste voci rapaci. Ha preferito andare fino in fondo, anche rischiando, come abbiamo sentito prima dall’introduzione di don Carlo Truzzi; e il rischio era effettivo. Ha obbedito non tanto per un generico senso del dovere, ma per quel senso pastorale che aveva nel cuore: se fosse stato vero che un ferito lo attendeva, avrebbe mancato al suo dovere di pastore chiudendosi in casa, cercando la falsa pace. Così, proprio diventando agnello e colomba, è stato fisicamente assalito dal lupo e dal falco, ma ha riportato la vittoria vera. L’Apocalisse dice che alla fine vince l’agnello immolato. È la vittoria del dono di sé, della croce, perché Gesù attraverso la croce ha donato tutto ed è risorto. Il dono della pace vera passa attraverso persone capaci di andare fino in fondo. Ringraziamo il Signore per questo testimone di una generosa offerta di sé e di attenta cura dell’altro, per questo agnello, per questa colomba, per questo pastore, che ha saputo obbedire fino in fondo alla voce del Signore e che, pur cadendo fisicamente nelle mani dei rapaci, ha custodito ciò che conta nella vita, la fedeltà, il dono di sé. È stato per questo un vero operatore di pace.