(At 10,34a.37-43; Sal 117; Col 3,1-4; Lc 24,13-35)
Omelia
È sempre utile osservare, nei Vangeli, anche i particolari che possono apparire insignificanti e sfuggono ad un primo ascolto. Ad esempio, l’uso delle preposizioni semplici, che tutti abbiamo imparato fin dai primi anni di scuola come una piccola filastrocca di sillabe: di, a, da, in, con, su, per, tra, fra. Ce ne sono tre, nella pagina di Emmaus, molto significative. All’inizio del racconto domina la preposizione “tra”: i due discepoli, dice Luca, “conversavano tra di loro”; e Gesù, accostatosi, chiede: “che discorsi state facendo tra voi”? I due erano smarriti, confusi, delusi: “noi speravamo”… Erano alla deriva, lasciati a loro stessi. Due persone “con il volto triste”, come dice il Vangelo, anche se si alleano tra di loro, non riescono ad uscire dalla loro amarezza. Anzi, rischiano di incentivarla: il malumore condiviso con altri rischia di dilagare. È la fotografia di un’umanità incapace da sola di creare legami sani; quel “tra di loro”, insistito, esprime l’impossibilità di uscire con le nostre sole forze da una condizione triste e delusa. È una fotografia di questo tempo, segnato dalla pandemia: tra smarrimento, illusioni e attese deluse, ci siamo resi conto che non è sufficiente affrontare tra di noi questa sofferenza. È necessario lasciarci avvicinare, accostare dal Signore risorto. Le nostre speranze umane, per quanto aperte su un futuro non lontano di maggiore serenità e di ripresa, vanno sempre a sbattere contro il muro della morte. Quando, grazie a Dio e all’impegno di tante persone, avremo superato questa crisi sanitaria, torneranno in primo piano altre crisi, che stanno covando sotto la cenere e dovranno essere affrontate con pari energia: crisi economica, sociale, educativa, ambientale; e poi le altre malattie che comunque continuano a colpire tutti noi. È l’elenco, che ben conosciamo, dei mali del mondo. I due discepoli, quindi, siamo noi: l’umanità ferita, avvilita e sfiduciata.
C’è però una seconda preposizione semplice che si affaccia e poi domina la scena: “con”. In mezzo a questa tristezza che regna “tra” i due discepoli, fa la sua comparsa Gesù risorto: “si avvicinò e camminava con loro”. Il cerchio dei due personaggi amareggiati si rompe: il “tra” diventa “con” e si apre a un terzo. La relazione malata tra i due si può sanare solamente con una nuova presenza, la prossimità del Risorto, un lampo di vita che spezza il circolo vizioso della tristezza. Gesù però non irrompe con forza, non si impone, non mostra la sua gloria; è talmente discreto che non lo riconoscono neppure. Non chiede ai due discepoli di adeguarsi al suo passo, ma è lui che prende il loro passo stanco. E comincia a spiegare le Scritture: senza accodarsi ai loro malumori, evitando di mettersi anche lui “tra” i loro discorsi, il suo cammino “con” loro si rivela come una ventata d’aria nuova, una parola illuminante, una fiaccola accesa nell’ombra della tristezza umana. Loro due capiscono che sta succedendo qualcosa, sentono che quella compagnia, quel camminare “con” loro, è una promessa di vita; avvertono che la loro amarezza si sta sgretolando e il buio del loro cuore si sta rischiarando. Per questo, arrivati a Emmaus, lo supplicano: “resta con noi, perché si fa sera”. Non è solo la sera di quella strana domenica, è la sera del loro cuore che fa paura ai due discepoli. Quella sera che li aveva avvolti in realtà fin dal mattino, quando avevano deciso di intraprendere il cammino di 11 chilometri da Gerusalemme a Emmaus. È la sera della tristezza: e non vogliono che cali di nuovo su di loro; quell’uomo ha riacceso una luce. Il Vangelo insiste ora proprio sulla preposizione “con”: Gesù “entrò per rimanere con loro”; e “quando fu a tavola con loro” spezzò il pane. Proprio il fatto che Gesù sta “con” loro, prima spiegando le Scritture sulla via e poi spezzando il pane nella casa, fa sì che i due lo riconoscano. Il Signore si riconosce nella prossimità, quando ci fa compagnia nella sua Parola e nell’Eucaristia, quando condivide “con” noi i sentieri faticosi dell’esistenza e scalda il nostro cuore.
I discepoli arrivano così alla conclusione, appena Gesù sparisce: “non ardeva forse in noi il nostro cuore”? La terza preposizione semplice, che spiega tutto, è fatta di due lettere: “in”. I due riconoscono che è il Signore, perché solo lui poteva far ardere “in” loro il cuore. Il suo cammino “con” noi è in realtà un ingresso “in” noi, nel nostro intimo, in quel cuore prima smarrito e buio e ora illuminato. Gesù risorto non fa solo compagnia, ma diventa nostro intimo. Luca usa il verbo “ardere”, bruciare, come se si fosse attivato un focolare, come se si fosse acceso un caminetto a legna dentro i discepoli: è entrato in loro un fuoco nuovo, che ha vinto la freddezza e la tenebra di prima. Li ha riscaldati e illuminati al punto che ora, in piena notte, non temono più il buio e ripercorrono in direzione opposta gli 11 chilometri per tornare a Gerusalemme. All’andata avevano camminato sotto il sole, con la notte nel cuore; al ritorno camminano nella notte, con il sole nel cuore.
Il Signore risorto ci porti il sole nel cuore: fuori ci sono ancora molte tenebre, e purtroppo ce ne saranno sempre; ma se lasciamo entrare la sua parola e la sua vita nel cuore, potremo attraversare anche il buio mantenendo accesa la luce della speranza.
+ Erio Castellucci