– Is 61,1-3,6,8b-9; Sal 88; Ap 1,5-8; Lc 4,16-21 –
“A Nazaret, dove era cresciuto”. È la terza volta che Luca allude alla “crescita” di Gesù. Dopo la presentazione al Tempio, Maria, Giuseppe e Gesù avevano fatto ritorno a Nazaret dove “il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui” (2,40). Una dozzina di anni dopo, una volta ritrovato nel Tempio e riportato a Nazaret, “Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (2,52). E infine, nel Vangelo di oggi, tornato ormai trentenne dal deserto di Giuda nella sua patria, “venne a Nazaret dove era cresciuto” (4,16). Tre riferimenti alla crescita di Gesù, espressi con tre verbi diversi ma sinonimi: il primo con la sfumatura di “aumentare”, il secondo di “progredire” e il terzo di “allevare”. Nazaret è dunque, decisamente, il villaggio della crescita di Gesù. Non solo della crescita anagrafica e fisica, ma anche della crescita intellettuale e spirituale. Luca non presenta Gesù, a differenza di qualche Vangelo apocrifo successivo, come un bimbo prodigioso, una divinità racchiusa nel corpo di un bambino, un essere completamente cosciente della propria divinità e capace di dire e fare cose straordinarie fin dall’inizio. Per Luca, come per gli altri evangelisti, Gesù è davvero il Figlio di Dio fatto uomo; il corpo non è l’involucro nel quale parla e agisce Dio, ma è la dimensione umana di Gesù; lui davvero cresce fisicamente e matura intellettualmente e spiritualmente. Nazaret ha segnato la vita concreta del Figlio di Dio che è anche figlio di Maria, ha inciso la sua quotidianità nella carne di Gesù. Il Messia è anche il frutto del villaggio di Nazaret: ne ha respirato l’aria e la polvere, ha vissuto il clima e le relazioni del paese, ne ha mangiato i cibi e bevuto l’acqua, ha lavorato il legno e ha pregato nella sua sinagoga.
Infatti, lo troviamo proprio nella sinagoga di Nazaret, colto da Luca in un gesto consueto: “secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere”. Un tocco quotidiano, quasi domestico, che però sprigiona subito un gesto straordinario: lasciando tutti stupiti, dopo avere letto un passo di Isaia 61 dal sapore messianico, disse: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”. Fine della predica, la più corta della storia – Gesù si rifarà poi sui tempi dell’omelia con i discepoli di Emmaus – ma anche la più incisiva della storia. Quella predica infatti distoglieva dal testo scritto e concentrava l’attenzione su di lui; spostava lo sguardo dal rotolo al corpo, dalla pergamena alla carne. Il compimento della Scrittura di Isaia, infatti, non è una nuova Scrittura, ma una persona in carne e ossa, lui stesso. Questo è il salto che Gesù invita a compiere: non il passaggio da uno scritto ad un altro, ma il passaggio da una parola scritta alla parola fatta carne. Uno scritto è statico, si può al massimo deturpare e restaurare; un corpo è dinamico, cresce e diminuisce.
Gesù ha terminato di crescere, ora che si è finalmente dichiarato Messia? Certamente no. Gesù continuerà a compiere nel suo corpo le Scritture, fino al momento in cui, sulla croce – come ci informa il Quarto Vangelo – dirà: “è compiuto” (Gv 19,30). Il compimento delle Scritture comincia nella sinagoga a Nazaret e culmina sul Golgota a Gerusalemme, per sfociare – come dirà Gesù stesso ai discepoli di Emmaus, nella predica lunga – nella risurrezione il terzo giorno. Gesù continua a crescere per tutta la vita: comincia a crescere nel grembo di Maria, con il suo corpo umano, il giorno dell’Annunciazione e finisce di crescere nel grembo del Padre, con il suo corpo trasfigurato, il giorno dell’ascensione. Crescendo non solo fisicamente, ma anche nella mente e nello spirito, Gesù “impara”. La Lettera agli Ebrei, con la sua cristologia dinamica, riassume in poche parole i progressi di Gesù: “benché Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì” (5,8). Che cosa patì? Proprio quelle esperienze che, in quanto Messia, era venuto ad alleviare: la povertà, la prigionia, l’oppressione, il buio del dolore. Le “patisce”, non le aggira, non le evita; le attraversa, perché chi ama condivide fino in fondo. Sulla croce così “è compiuto” davvero tutto: sia l’obbedienza al Padre, in un atto di completo affidamento, sia l’assimilazione ai fratelli, in un atto di condivisione totale. La missione stessa di Gesù, dunque, lo fa crescere. Il Figlio di Dio si lascia plasmare anche dalle esperienze umane, dall’incontro con le persone, dalle prove della vita, dalle gioie di ogni giorno.
Se non sono riuscito ad imitare la brevità della predica a Nazaret, non vorrei nemmeno rischiare la lunghezza di quella verso Emmaus. Chiudo allora velocemente, chiedendo per noi, ministri della Chiesa, di vincere il timore di “crescere”, di lasciarci plasmare dalle esperienze pastorali, dalle persone e dagli avvenimenti. Non siamo e non dobbiamo essere banderuole che cambiano direzione con il vento, ma nemmeno pali di cemento fissi e insensibili ad ogni possibile integrazione. Le eccessive rigidità, da qualsiasi parte vengano – da atteggiamenti ultraconservatori come ultra-innovatori – creano divisione nel corpo ecclesiale, che è poi il corpo di Cristo in continua crescita. Fanno male sia le membra paralizzatesi nel loro eccessivo tradizionalismo, sia quelle gonfiatesi nel loro eccessivo progressismo; entrambe difettano di quell’umiltà necessaria per crescere insieme: quell’umiltà che Gesù ci ha chiesto di imparare da lui, “mite e umile di cuore” (cf. Mt 11,29) e che lui ha testimoniato continuando sempre a imparare e a crescere.