Ez 37,12-14 – Sal 129/130 – Rm 8,8-11 – Gv 11,1-45
Il rimprovero di Marta – ripreso da Maria – è motivato: “Signore, se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”; è motivato, perché una volta che Gesù ha la notizia della malattia grave del suo amico Lazzaro, invece di partire rimane ancora due giorni lontano da Betania, in Galilea, e solo dopo decide di partire; e quando arriva, Lazzaro è già nel sepolcro da quattro giorni. Gesù temporeggia, sembra quasi disinteressato alla sorte dell’amico; forse temporeggia perché – come spiega ai discepoli – si deve manifestare la gloria di Dio, che non consiste tanto nel miracolo della risuscitazione di Lazzaro, quanto nel dare un segno anticipato del destino che attende tutti, lui compreso, cioè la risurrezione. Gesù non è venuto a prolungare la vita, Gesù è venuto a ridare la vita, a restituirla: non gli interessa allungare la vita, gli interessa aprire uno squarcio oltre la morte, spalancare la prospettiva dell’eternità. Per questo Giovanni non chiama mai “miracoli” quelli che noi così chiameremmo, ma li chiama “segni”: Gesù cioè non compie questi gesti straordinari per risolvere dei problemi immediati, che poi inevitabilmente si sarebbero ripresentati – Lazzaro è poi morto di nuovo – e che comunque non risolvono il problema di tanti; Gesù pone questi gesti come segni anticipatori del regno di Dio, nel quale non ci sarà più né lutto, né morte, né sofferenza. I due giorni di attesa e i complessivi quattro giorni di ritardo di Gesù sono, dunque, indicazioni temporali preziose: il Signore non vuole dilatare il tempo della vita terrena, vuole aprire la strada della vita eterna.
C’è poi un altro particolare: Marta e Maria dicono la stessa cosa, usando esattamente la stessa espressione “Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”; però Gesù si commuove solo dopo aver incontrato Maria. L’incontro con Marta è importante, perché muove la professione di fede di lei: “Signore io credo che tu sei la risurrezione e la vita”; però Marta non commuove Gesù; è Maria che commuove il Maestro, perché si getta ai suoi piedi e piange. Gesù è commosso dall’umile commozione umana, non è commosso dal rimprovero umano e nemmeno solamente dalla fede: la stessa frase detta da Maria – da lei però pronunciata ai piedi – è una frase che nuove in Gesù il pianto. Il Signore partecipa al lutto umano: siamo poco abituati a vedere che Gesù scoppia in pianto, come in questo caso, e scoppia in pianto per l’amico. A volte risolviamo la figura di Cristo in una specie di “mandorla divina”, come se non avesse provato dei sentimenti, non avesse vissuto dei momenti di crescita, di maggiore comprensione, come se insomma fosse completamente estraneo alla nostra condizione umana; mentre Gesù è immerso nella nostra situazione umana, e la commozione, l’umile commozione di Maria, produce la sua stessa commozione e il suo pianto: per tre volte in questo racconto ci viene detto che Gesù amava. E l’amore non sopporta che l’altro sparisca per sempre: questo è il motivo per cui Dio ha ispirato la fede nella vita eterna; gli ebrei cominciarono a credere nella risurrezione – come testimonia Marta – già nell’epoca pre-cristiana; e la ragione fu la fede in un Dio che non può sopportare che la sua creatura amata perisca per sempre: Gesù viene a confermare questa fede addirittura con la sua risurrezione. Gesù passa attraverso il sepolcro per aprire dentro al sepolcro una fessura di luce.
Dio non può sopportare la nostra scomparsa per sempre, il suo amore è talmente grande che ci porta fuori dal sepolcro. La fede cristiana non è una fede banale nella ripresa di una vita dopo una parentesi: la risurrezione non sarà semplicemente riprendere la vita terrena, sarà una pienezza, sarà un corpo luminoso, sarà la realizzazione di tutte le relazioni vissute, sarà il trionfo di quei germi di amore che quaggiù abbiamo sperimentato solo per assaggi.
La risurrezione della carne è il segno che Gesù vuole dare; non allungare la vita ma ridare vita, dare pienezza di vita. Il Signore ci aiuti a rafforzare la nostra fede nella risurrezione, perché solo in questo modo diamo valore a tutti i momenti della vita terrena. Nulla va perduto, tutto ciò che noi viviamo nel nostro corpo, i nostri legami quotidiani, le nostre sofferenze e le nostre gioie, tutti quei germi di amore che ora esprimiamo in maniera incompleta e ferita, troveranno compimento nell’eternità perché Dio non sopporta che noi periamo per sempre, lui che ci ama immensamente.