E’ celebre la novella di Tolstoj – La morte di Ivan Il’ič – il cui protagonista e un giudice che ha sempre saputo, certo, di essere mortale, e ha visto non pochi amici, più o meno giovani, abbandonare la vita. Quando si ammala, pero, la concreta prospettiva di dover morire lo inquieta più di quanto avrebbe mai immaginato: cerca di pensare ad altro, si butta affannosamente sul lavoro, ma senza risultati, perché il dato inoppugnabile della propria finitezza gli si riaffaccia di continuo alla mente. Mentre, in passato, riteneva che la cosa avrebbe riguardato sempre altri, e non lui. Qualcosa di simile e capitato a noi emiliani, con i terremoti del 20 e 29 maggio 2012. Un’eventualità, quella di esser colpiti da un sisma importante, che non credevamo realistica, che ritenevamo potesse accadere si, ma altrove: a L’Aquila, in Umbria, in Irpinia, in Friuli. Non qui, non in queste terre che ci siamo abituati a immaginare sin da piccoli appoggiate un po’ magicamente sull’acqua di più o meno antichi sedimenti alluvionali. Rassegnati fatalmente ai relativi fastidi locali – nebbie e freddo pungente in inverno, afa umida e zanzare d’estate – ma non a questo. Per la verità, già una quindicina d’anni prima, il 15 ottobre 1996, zone comprese fra il Modenese e il Reggiano erano state oggetto di scosse non da poco: i danni maggiori, pero, li aveva subiti il patrimonio storicoartistico, mentre le case e il tessuto produttivo erano stati sostanzialmente risparmiati. E, soprattutto, non c’erano state vittime Ecco perché quell’evento ha prodotto una memoria alla fine piuttosto blanda; ed ecco perché lo stupore – il sentimento prevalente, accanto all’ovvio istinto di sopravvivenza che e la concausa di una psicosi legata alla paura diffusa e lenta a disperdersi – di fronte a quello che e stato definito da più parti un terremoto anomalo. E la cui anomalia, dal nostro punto di vista, riguarda soprattutto il fatto che stavolta era toccato a noi, e non ad altri. A noi, cui non poteva succedere, come a Ivan Il’ič. Doveva essere un incontro familiare, quasi informale, negli auspici di tutti: ed e andata proprio cosi. Nella ricorrenza dei cinque anni dall’evento citato, papa Francesco ha accettato l’invito del vescovo di Carpi, Francesco Cavina, di recarsi qui, domenica 2 aprile. Una notizia resa ufficiale in zona Cesarini, l’ultimo giorno di febbraio, ovviamente quanto mai gradita e del tutto inattesa: tanto più che una settimana prima, il 25 marzo, era stato il cardinale Parolin a celebrare l’eucaristia di riapertura della cattedrale carpigiana (“Il terremoto non ha l’ultima parola”, ci ha detto), un momento già memorabile di suo per questa minuscola Diocesi (38 parrocchie, 130.000 anime in tutto). Eppure, quello sarebbe stato solo l’antipasto di una festa di popolo difficile persino da immaginare, da queste parti. Non che siano mancate visite pontificie, negli ultimi decenni: Giovanni Paolo II si reco a Carpi nel 1988, all’inizio di un viaggio nelle Chiese emiliane, mentre Benedetto XVI giunse poche settimane dopo il terremoto, puntando sulla frazione di Rovereto sul Secchia, sotto le macerie della cui parrocchiale era morto don Ivan Martini, il prete dei carcerati e degli ultimi (qui, inoltre, e stato beatificato Odoardo Focherini, nel 2013, che il papa ha ricordato insieme a Mamma Nina e a suo fratello don Zeno, fondatore di Nomadelfia). E neppure momenti di ritrovo collettivo più laici e ben partecipati, due anni fa, in occasione della promozione in serie A della squadra di calcio locale e l’anno scorso per celebrare l’oro olimpico di Greg Paltrinieri, gloria nazionale del nuoto. L’abbraccio di e con Bergoglio, tuttavia, ha avuto, e non poteva che essere cosi, un sapore diverso, e speciale. Per lui, il passaggio da una settimana all’altra dalla diocesi più grande del mondo (Milano) a una delle più piccole d’Italia, la nostra, non ha creato un particolare imbarazzo. Tutt’altro! Perché la cifra delle sue visite alle Chiese locali – e qui, fra Carpi, Mirandola e San Giacomo Roncole, le tre tappe toccate nell’arco di neppure nove ore, lo si e registrato in maniera particolare – e la valorizzazione della dimensione umana di ogni incontro, l’empatia smisurata e coinvolgente che traspare da ogni sguardo, saluto, abbraccio, carezza, selfi e. Per dirla in altri termini, a rischio retorica pero veri: da questo Papa ci si sente amati, per cui non si può non amarlo. Certo, ogni appuntamento possiede un suo specifico, collegato ai diversi contesti. Qui, approfittando della felice occasione del vangelo della V domenica di quaresima, il tema e stato quello della vita che e più forte della morte. Una morte che, talvolta, anzi, spesso, sembra prevalere e prendere il sopravvento. Del resto, come Francesco ha ricordato nella splendida omelia della messa carpigiana celebrata nella scenografica Piazza dei Martiri, anche Gesù fu scosso dal mistero drammatico della perdita di una persona cara, l’amico Lazzaro, e se ne commosse. Perché il cuore di Dio e cosi: lontano dal male ma vicino a chi soffre; non fa scomparire il male magicamente, ma compatisce la sofferenza, la fa propria e la trasforma abitandola. Pur afferrato dalla desolazione, Gesù non si lascia abbattere dallo sconforto, ne si rinchiude nel pianto, ma continua a pregare il Padre.
Brunetto Salvarani