“L’informazione è radicalmente cambiata, il giornalismo classico non esiste più, il nuovo modello si fonda sulla condivisione delle fonti e delle notizie e mette in questione la relazione tra coloro che le danno e coloro che le ricevono”. Ne è convinto padre Francesco Occhetta, scrittore della rivista “La Civiltà Cattolica” e consulente ecclesiastico dell’Unione cattolica della stampa italiana (Ucsi). Intervenendo come relatore al XXI master di aggiornamento della Federazione italiana settimanali cattolici (Fisc), concluso il 23 settembre, a Palermo, padre Occhetta ha spiegato che la “sfida comunicativa” che attende i giornalisti e, in particolare, quelli cattolici è “oggi più che mai aiutare le persone ad avere elementi validi per analizzare la realtà”. Su questi temi il Sir, incontrandolo a margine del master, lo ha intervistato.
Cosa vuol dire “comunicare bene”?
“I media, che con ragione vengono definiti il quarto potere, hanno il dovere di curare la qualità dell’informazione e la sua credibilità. Dobbiamo essere però consapevoli che si è credibili non se si è creduti, ma se non si è falsificabili. Una buona informazione ha la capacità di vedere lontano, fino a dove c’è un uomo che soffre e non riesce a parlare. Informare bene vuol dire raccontare sempre la verità. Una verità che è a servizio del bene comune. Se ciò non avviene si degenera in forme di giornalismo dannose, servili o ‘verbalmente violente’. In questa logica, la stampa cattolica – anche se caratterizzata a volte da strumenti poveri e semplici – può riaffermare il valore dell’informazione come relazione attenta e costante con i problemi del territorio. La tiratura dei settimanali Fisc (circa un milione di copie alla settimana) dimostra che questa relazione è possibile e viene premiata dai lettori”.
È allora plausibile parlare di un’informazione del territorio come di un’informazione che può dare un messaggio ai grandi media? E questi ultimi hanno la capacità e l’interesse di recepirlo?
“Sembra che i grandi media non abbiano interesse a recepire le informazioni del territorio. Troppo spesso le notizie sono lette strumentalmente per avvalorare ragioni di parte. Una scelta che svuota di vita il loro comunicare. Quindi più che chiederci se è possibile, direi che si deve rilanciare l’informazione locale per raccontare la vita della gente, discernere i problemi che emergono e comprendere i valori che tengono insieme il Paese”.
In un contesto di multimedialità la carta stampata ha ancora uno specifico ruolo?
“Direi di sì, se riesce a integrare e a integrarsi con le nuove forme multimediali. Il tema, però, non deve rappresentare una preoccupazione. L’attenzione va posta, invece, sui contenuti e su come raggiungere i nostri interlocutori”.
E che cosa possono fare la Chiesa e la stampa cattolica per favorire una “buona comunicazione” che raggiunga anche i giovani?
“Necessarie sono le capacità di fare rete e di sperimentare nuovi codici comunicativi per le nuove generazioni. È importante anche che la Chiesa e le redazioni siano palestre gratuite per i giovani giornalisti, curando la formazione di essi. Una formazione permanente e continua a livello spirituale e culturale”.
Riprendendo il tema del “comunicare bene”, la recente pubblicazione di vignette contro l’Islam da parte della rivista satirica francese “Charlie Hebdo”, che fanno seguito alla diffusione on line del film americano “The innocence of muslims”, si può motivare come diritto all’informazione?
“‘Sì’, ma con un preciso ‘però’. ‘Sì’ perché lo affermano sia la dichiarazione dei diritti umani del 1948 che tutte le principali Costituzioni democratiche. ‘Però’ perché queste fonti richiamano anche il rispetto e il diritto alla libertà religiosa. Principi che devono ispirare azioni concrete e devono essere declinati in relazione alla complessità della storia e della cultura in cui si vive. Le vignette sono quindi lecite, ma non opportune. La comunità cristiana sa cosa vuol dire l’esperienza umiliante di vedere profanato il Signore e Maria, ma quello che la Chiesa insegna è la tolleranza. C’è inoltre un terzo principio da non dimenticare: la reciprocità. Le religioni e la politica, ovunque e a tutti i livelli, devono infatti lavorare insieme per il rispetto della credenza dell’altro. Solo così si aiuta il mondo a crescere in umanità”.