Santa messa in suffragio dei carpigiani defunti a causa del coronavirus
MISSA PRO FIDELIBUS DEFUNCTIS IN TEMPORE PESTILENTIAE
Omelia di mons. Ermenegildo Manicardi
Diretta televisiva su Tvqui
Sorelle e fratelli carissimi, il dolore sincero, che proviamo di fronte alla sofferenza dei nostri cari, ci fa sentire amici come non mai e ci rende desiderosi di condividere tutto il bene che è in noi: le nostre speranze più belle e le nostre ricchezze, tra cui – non ultima – la nostra fede cristiana. Come state sentendo nel cuore, il fatto che siamo ciascuno nella sua casa non riesce a separarci. Stiamo scoprendo adesso che, forse, ci vogliamo più bene di quanto appare quando, come si dice, “siamo in forma”.
È stato scritto che per domare bene un cavallo occorrono prudenza ed audacia. La prudenza non basta e la sola audacia potrebbe esserci fatale. Dobbiamo riuscire a dominare il cavallo bizzarro della pandemia. Ci serve la prudenza, che le autorità pubbliche ci propongono e ci impongono, ma a noi occorre anche l’audacia, che solo ciascuno di noi può immettere nella realtà con la sua responsabilità intelligente.
In questi giorni, accanto alla prudenza dei comportamenti di vita e dello stile, abbiamo bisogno che l’audacia coraggiosa dei pensieri e dei sentimenti tenga vivo il nostro cuore. Solo «la magnanimità» – ossia la vera virtù dei forti, tanto apprezzata dagli antichi romani e che potrebbe essere la cifra tradizionale anche degli italiani di oggi – può evitarci di intristire nella malinconia e di appassire spiritualmente nel terrore.
1. Il Signore Dio eliminerà la morte per sempre
Ascoltiamo dunque con audacia la profezia che Isaia ha pronunciato, più di ventisette secoli, nella Gerusalemme flagellata dall’angoscia dell’assedio e dalla peste.
Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto per tutti i popoli.
Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli.
La condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese
ed eliminerà la morte per sempre.
La morte è una situazione che non appartiene soltanto alla storia e alla biologia, come fine della nostra vita terrena, ma è anche una porta che, per noi, si spalanca sul futuro di Dio. Il Signore ci ha destinati a vivere per sempre con lui, al di là della nostra storia, forse piccola e breve, nel suo regno immenso di luce infinita.
Già nell’antichità, nel tentativo di dominare la paura della morte, alcuni hanno tentato, per così dire, di “snobbarla”. Hanno insegnato: «Non temere! Fin quando tu ci sarai, non ci sarà la morte; quando verrà la morte, tu non ci sarai più».
I Profeti e Gesù hanno seguito un’altra strada. Hanno proposto una medicina molto diversa e più efficace. Quando il suo amico Lazzaro era nel sepolcro ormai da quattro giorni, mentre davanti a lui la sorella Marta piangeva, Gesù ha proclamato con forza: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi tu questo?» (Gv 11,25s).
La nostra consolazione non è il gioco retorico che dice che la morte non c’è mentre noi siamo vivi. La nostra vera speranza è quell’ “àncora capovolta”, che Gesù risorgendo ha buttato dentro al cielo. L’àncora della nostra vita è già stata lanciata: non nel fondo oscuro del mare, ma oltre le nubi anche le più dense e le più cupe. Il destino ultimo dell’uomo è davvero la vita con Dio, ben oltre ogni incertezza e oscurità: presso il Signore ci sarà solo luce, vita e amicizia senza ombre.
2. La nostra cittadinanza è nei cieli
Con audacia forse ancora maggiore, prendiamo sul serio la rassicurazione di Paolo ai Filippesi: «La nostra cittadinanza più vera è nei cieli» (Fil 3,20). Sulla terra siamo soltanto dei migranti. Il nostro viaggio, però, sta procedendo verso il cielo. Se non ci vergogniamo della croce di Cristo e del suo mistero pasquale, allora sarà chiaro dove l’umanità è incamminata. Il dolore non distrugge la vita. Anche il dolore della morte per i propri cari – come quello che noi oggi proviamo per i nostri 25 defunti – mostra l’amore e testimonia che siamo davvero creati per un’altra patria.
I nostri antenati, all’inizio del Cinquecento, hanno ideato la struttura fondamentale della città, che anche oggi con orgoglio abitiamo. Essi ebbero l’audacia si sperare nella vita eterna e di iscriverla nell’architettura pubblica, strutturando gli edifici al cuore della città in modo nitido, simbolico e sapiente. Raccolsero la nostra famosa piazza tra i due riferimenti decisivi: a Est il Palazzo signorile dell’autorità e, a Ovest, i portici con le case e i negozi dei cittadini borghesi. Al centro, per entrambe le classi c’era, per tutti, lo spazio condiviso del mercato. La piazza, però, vollero chiuderla, a Nord, con un terzo lato, quello decisivo, spalancandolo verso il Sud del mercato. Dall’altro lato, in fondo alla piazza, la città rimaneva aperta verso le case degli abitanti più semplici e verso la campagna. In questa visione integrale della città e dell’uomo, il duomo rivendicava e rendeva concreto il riferimento a Dio e alla trascendenza. La Cattedrale – in cui anche oggi viviamo una commossa preghiera dell’intera città – era riconosciuta come un’articolazione essenziale dell’esistenza umana e umanistica. È lo stesso uomo quello che dimora solennemente nel Palazzo principesco o che abita sotto i portici: tutti confluiscono nel mercato condiviso e tutti si recano in duomo a pregare.
Quando nel tardo ottocento si curò una più degna decorazione pittorica, adatta all’imponenza architettonica dell’edificio in qualche modo ancora incompiuto, si fece addirittura di più. La statua cinquecentesca della Madonna Assunta fu spostata al centro dell’abside, in modo che fosse il punto a cui orientarsi e da cui tutta la vita della piazza prendesse energia e luce.
Decisero, inoltre, di affrescare il fondo del duomo in modo che non terminasse con una chiusura o con semplici finestre. Scelsero infatti di dipingevi la prospettiva di un balcone, aperto e spalancato verso il cielo. Nella nostra cattedrale, perciò, tra l’altare e l’abside è dipinto uno squarcio. È da lì che la Vergine viene assunta il cielo ed è da lì che, idealmente, anche ciascuno di noi è destinato a salire con Lei verso il Padre.
Nella fede noi sappiamo che anche nostri concittadini morti in queste settimane di covid-19 – pur essendosene andati senza un funerale e senza un cordoglio pubblico – sono stati fatti passare, in qualche modo, da questo squarcio di cielo. Qui la Madonna Assunta li ha aspettati per spostarli con sé verso l’incontro nel cielo.
Non è vero che i nostri cari sono spariti senza lasciare tracce. Noi, nella fede, vogliamo avere l’audacia santa di credere che «la nostra legittima cittadinanza è nei cieli», come ci ha testimoniato San Paolo. Abbiamo camminato tanto su questa nostra piazza, abbiamo sognato e amato senza spilorcerie, abbiamo lavorato molto nelle nostre case, nelle nostre fabbriche e nelle nostre celebri industrie: il nostro destino più autentico ed eterno è, però, di essere con il Signore per sempre.
Con la celebrazione di questa sera vogliamo accompagnare i nostri morti di covid-19 nella loro ultima salita verso il Signore, guidati ancora una volta dalla Vergine Assunta.
3. Imparate da me, che sono mite e umile di cuore
Come abbiamo sentito dalla proclamazione del vangelo, Gesù ci invita ad andare a lui con fiducia. Egli non ci chiama perché siamo particolarmente buoni, speciali o nobili, belli o produttivi, ma solo perché – nella sua tenerezza – ci vede stanchi ed oppressi. Sì, è vero: molti di noi – anziani, giovani, adulti e, persino, bambini – siamo stanchi di tanti rischi e dolori, siano oppressi da molte preoccupazioni e turbati da non poche confusioni. Accogliamo perciò con amicizia l’invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro».
Senza paura, concludiamo perciò facendo risuonare ancora, nel cuore, parole di Isaia proclamate poco fa.
«E si dirà in quel giorno, ossia nel giorno in cui incontreremo di nuovo i nostri cari: “Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse; questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo”».